La vita di un manoscritto dalla tarda antichità all’età moderna: il Dioscoride di Giuliana Anicia

Benché sia per noi generalmente difficile da immaginare esistono alcuni esemplari manoscritti che riescono a far comprendere con grande efficacia quanto vitale fosse, per la trasmissione della conoscenza, un manoscritto, e quanto la copia di questi testi (non soltanto ad opera dei proverbiali monaci amanuensi) e la cura con la quale furono in ogni epoca difesi dalla furia dei secoli fossero essenziali per la sopravvivenza e la progressione dei saperi. La loro conservazione, infatti, non era meramente statica, non venivano riposti con cura in uno scaffale e lasciati lì generazione dopo generazione a conservare in silenzio i loro testi: erano strumenti di conoscenza attivi che venivano continuamente consultati, aggiornati ed annotati; punti di riferimento secolari, veicoli instancabili di conoscenze di ogni tipo.

Tra le conoscenze che la tardo antichità poteva offrire vi erano certamente quelle scientifiche: trattati greci o romani di astronomia, fisica, matematica, medicina e farmacologia furono per tutto il Medioevo testi didattici validi, utilizzati nelle scuole e nelle Università come manuali dagli studenti di ogni secolo. Uno di questi trattati sopravvissuti come libri di testo era il De materia medica di Dioscoride, medico e botanico romano vissuto nel I secolo d.C. (ai tempi dell’imperatore Nerone); argomento del trattato erano le virtù terapeutiche di fiori e piante e veniva dunque utilizzato per produrre farmaci.

Ad avere quest’opera nella sua biblioteca fu, nel 512, l’aristocratica Giuliana Anicia, celebrata per il suo evergetismo: nel frontespizio del manoscritto (che contiene anche altre opere mediche) viene infatti ritratta in atto di far cadere monete – un riferimento alla sua generosa attività di committente – ed affiancata dalle personificazioni di Magnanimità e Prudenza. In un linguaggio stilistico classico, impressionistico, si esalta la prodigalità di quella che era stata la finanziatrice dell’importante chiesa di San Polieucto, a Costantinopoli. Il suo nomen, Anicia, indica l’antica famiglia dalla quale proveniva: era infatti parte di quella classe senatoriale romana che si era spostata in quello che era il nuovo centro dell’impero, la nuova Roma sul Bosforo. Il rango elevato di Giuliana Anicia risulta evidente sia dalla grande disponibilità economica che le permetteva di farsi orgogliosa committente d’arte sia dal titolo di console del quale poté fregiarsi, nel 506, suo marito Areobindo.

Al fine di illustrare le caratteristiche fisiche di fiori, radici e piante, riprodotti nei dettagli perché funzionali e necessarie all’utilizzo delle loro proprietà farmacologiche a scopi curativi, il codice venne dotato di un imponente ed accurato apparato di miniature. La sua precisione scientifica lo rese ben più che la testimonianza dell’evergetismo di una principessa teodosiana.

Trovò infatti impiego come strumento di studio presso i medici che operarono in secoli di molto successivi alla sua realizzazione: in piena epoca paleologa, infatti, a metà XIII secolo, lo si utilizzava come testo scientifico nell’ospedale di Costantinopoli, e ancora in epoca araba il medico personale del sultano Solimano lo leggeva e annotava, a margine delle illustrazioni, le sue considerazioni

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