Quando si comprenderà che l’alternativa a Salvini è proprio il contrario dello scontro frontale di cui è campione, e che la vera partita si gioca sui contenuti concreti e sulla loro narrazione proiettata sul “futuro e sul destino” del Paese? Insomma, quando si comincerà a prendere Salvini davvero sul serio? Perché finché non lo si fa continuerà a vincere. Al contrario, proviamo ora a dare una breve lettura critica del suo sopra citato “pentalogo”: “speranza, orgoglio, radici, lavoro, sicurezza”, e a presentare un’alternativa. È una serie molto eterogenea di parole chiave emotivamente forti, in cui vi è un paradossale gioco di equilibri quasi geometrico fra la prima parola, “speranza”, che apre al futuro, e l’ultima, “sicurezza”, che chiude all’altro, protegge e difende da un pericolo. Equilibrio precario, sbilanciato totalmente da quelle parole centrali, “orgoglio” e “radici”, urticanti per una certa classe borghese, che oltre a far pendere a destra la bilancia, gettano una strana luce sulla “speranza” di Salvin: forse intendeva “sopravvivenza”, “autoconservazione”, “mors tua vita mea”. Infine c’è il “lavoro”, i fatti, i dati, la serietà, la concretezza. Non c’entra niente con le altre, ma serve a farle passare come innocue al ceto un po’ più istruito (quello che ha appena rabbrividito a sentire “orgoglio” e “radici”): in fondo Salvini è solo un buon amministratore. Nel menù ce ne è per tutti: si rassicurano i moderati-progressisti che devono investire (“speranza”), si compattano i vecchi conservatori identitari (“orgoglio” e “radici”), si rassicurano i moderati conservatori del ceto medio-basso (“lavoro” e “sicurezza”).
Chi rimane fuori? Gli “altri”, e i giovani. Per quanto Salvini denunci spesso la fuga dei cervelli, ne fa una questione di orgoglio nazionale e quasi di protezionismo applicato agli studenti. Quella che manca, fondamentalmente, è una vera speranza, cioè visione di lungo periodo di una società aperta. Quella che manca è la fuoriuscita dal paradigma secolare della disciplina e dell’ordine statale che irregimenta, protegge e garantisce. Quello che manca semplicemente è il futuro e la comprensione di un mondo che manca. Salvini riesce abilmente a presentarsi come il futuro, ma è essenzialmente una riproposizione rimescolata e rivisitata del vecchio modello dello Stato forte e neoliberista. “Lavoro e sicurezza”, cioè in sostanza “spremere di più il limone”, come stigmatizza Magatti in un suo recente saggio. Una visione miope del nuovo paradigma nel quale siamo, che impone sfide di ben più alta portata.
L’alternativa alle cinque parole di Salvini deve dunque smontare pezzo per pezzo la sua proposta, e proporre un modello di società aperta, non semplicemente per buonismo e vago cosmopolitismo da salotto, ma per una corretta e concreta visione della realtà nel suo evolversi sul lungo periodo e nel suo contesto globale. La “vita reale”, per usare le sue parole, di questa società aperta presenta un “lavoro” inteso non come assegnazione individuale di un posto fisso e dunque come tornaconto privato (la miopia del “meno tasse”), ma come forma di relazione libera e generativa con l’altro (il prossimo), con cui collaborare sempre in forme nuove e diverse; questa società aperta non ha bisogno di dirsi orgogliosa delle proprie radici, perché è abbastanza forte da essere da riscoprirle sempre nuove proprio nell’incontro con l’altro e il diverso; è abbastanza forte, infatti, da non dover per forza dirsi “sicura”, “protetta” da qualcosa (perché lo si dica, l’emergenza sicurezza semplicemente non esiste). Insomma occorre uno sforzo intellettuale per comprendere e far comprendere che la costante prova di forza di Salvini è semplicemente prova della debolezza e dell’ansia che egli avverte e contribuisce a generare, in un circolo vizioso. Occorre essere più forti di lui nel presentare un’alternativa decisamente incentrata sul dialogo e sulla cooperazione nel lavoro, nell’istruzione, nel rapporto fra generazioni e fra popoli.