Il modo migliore per farsi un’idea di come potessero essere le basiliche romane nella tarda antichità è recarsi sull’Aventino. Lì, proprio accanto al noto Giardino degli Aranci, c’è una delle più antiche basiliche cristiane della città.
La sua fondazione risale al 425, sotto il pontificato di Celestino I, e non si tratta di una committenza papale: a volerla fu infatti il dalmata Pietro d’Illiria, menzionato al quarto rigo dell’iscrizione a mosaico in controfacciata, che in lettere blu su fondo oro ricorda la costruzione della basilica per la comunità illirica, una delle molte che tra V e VI secolo, in seguito alla larga diffusione del cristianesimo, sono giunte a Roma.
La basilica è uno di quei luoghi che hanno conservato tracce visibili delle tappe che hanno portato alla loro veste attuale, un palinsesto attraverso il quale è possibile leggere lo statificarsi dei significati culturali e l’avvicendarsi del gusto, dei committenti e della vita umana. Dalla comunità tardoantica alle modifiche di Sisto III, all’arrivo di S. Domenico grazie alla concessione di Onorio III, fino ad arrivare ai pennelli di Taddeo e Federico Zuccari e di Lavinia Fontana.
C’è un oggetto in particolare, però, che per la rarità del materiale e l’importanza come testimonianza iconografica merita una menzione isolata: il portale ligneo (quello laterale a sinistra). Che un’opera scultorea in legno sia giunta fino a noi – con l’aiuto di qualche restauro – è cosa non comune, perché il legno è uno dei materiali costruttori in assoluto più deperibili: è estremamente sensibile al clima, delicato e, fattore non trascurabile, può velocemente bruciare. Se le antiche statue in bronzo sono rare perché quel metallo, prezioso e costoso, veniva fuso e riutilizzato, le opere in legno lo sono perché fatte di un materiale organico che, solitamente, non è adatto a sopravvivere all’usura.
Il portale in legno di cipresso è diviso in pannelli, ciascuno con una scena diversa, e la decorazione tradisce, nonostante l’ottimo stato conservativo, il passaggio dei secoli: delle 28 scene originarie, infatti, ne rimangono 18.
I pannelli di questo portale – i cui episodi sono tratti sia dall’Antico che dal Nuovo Testamento – sono una testimonianza, insieme alle pitture catacombali coeve, del momento in cui le iconografie cristiane che inonderanno, nei secoli successivi, polittici, pale d’altare, pareti e pagine delle guide artistiche, prendono forma, alcune più timidamente di altre.
C’è un riquadro in particolare, in alto a sinistra, che ai nostri occhi appare decisamente familiare, un’immagine che però, nel V secolo, rappresentava una novità assoluta, che non avremmo ritrovato neppure nelle catacombe: una Crocifissione. Secondo la nostra esperienza quella scena avrebbe dovuto essere una delle centrali, ma proprio perché si trattava, ai tempi, di una iconografia nuova, sperimentale, e di un argomento per certi versi sensibile, data la natura umiliante della morte per crocifissione (le croci sono infatti appena visibili), gli autori hanno scelto una posizione quasi defilata.
La struttura è chiara ed essenziale, con la figura di Cristo al centro tra i due e di dimensioni significativamente maggiori rispetto agli altri condannati per sottolineare il fatto che sia lui il
personaggio più importante del racconto, il protagonista sul quale concentrare la nostra attenzione; la sintassi compositiva, sottolineata un po’ didascalicamente dall’architettura sullo sfondo, che scandisce la scena dividendola rigidamente in tre parti, guida il nostro sguardo in un modo che la nostra sensibilità artistica potrebbe percepire come un po’ invadente.
Tuttavia la scelta originale del soggetto, da parte di questo artista, ha segnato il punto di avvio di una tradizione iconografica di straordinario successo, che vedrà cimentarsi sul tema Giotto, Masaccio, Guido Reni, Dalì…