Sulla dimensione storica del sapere

Ci sono due modi in cui si potrebbe porre la domanda circa il senso dello studio della storia della filosofia o di qualsiasi altra scienza o arte. Il primo modo, delegittimante e in alcuni casi finanche denigratorio, è sovente segno di una totale indifferenza verso il “passato” della scienza della quale si domanda appunto il senso. In questo caso, la domanda “che senso ha?” non è segno di curiosità o di reale interesse culturale, ma è piuttosto un tentativo di farne emergere tutta l’insignificanza. Che senso ha studiare la storia dell’arte se io, nel qui ed ora della mia esistenza, grazie ad una particolare dote naturale (oppure grazie alla felice sintesi tra predisposizione e pratica costante) sono in grado di produrre opere artistiche di un certo valore? Allo stesso modo qualche bravo fisico potrebbe chiedersi che senso abbia studiare la storia della fisica se, nel qui ed ora del momento presente, le sue capacità di intuizione, comprensione ed elaborazione dei dati raggiungono standard scientifici soddisfacenti? In altri termini: perché studiare la storia dell’arte se sono già un bravo artista? Perché studiare la storia della fisica se sono un bravo fisico?

La scetticismo assai spesso si spinge oltre fino a negare reale validità persino alla studio della storia in generale. È davvero così importante, si domandano taluni (soprattutto nelle scuole medie e superiori) conoscere Alessandro Magno, le Guerre di religione o la battaglie della Seconda Guerra Mondiale?

Questi esempi testimoniano varie e possibili forme di scetticismo che condividono però un assunto di fondo ben preciso: il soggetto dubitante non si percepisce parte integrante di una comunità longitudinale che in sinergia, in periodi più o meno lunghi, ha contribuito ad accumulare conoscenze (quelle conoscenze che il soggetto dubitante, in un eccesso di ingratitudine, si limita a presupporre), ad individuare problemi, ad aprire nuovi orizzonti e a conquistare spazi di riflessioni possibili. In questi casi l’ingratitudine verso un passato che, in verità, continua a vivere nel nostro presente assume primariamente una connotazione etica: i soggetti in questione, in altri termini, usufruiscono di una conoscenza senza riconoscerne la dimensione storica di lenta accumulazione, conquista e conservazione. Oltre a questa dimensione etica, c’è anche una questione più sostanziale. Essa concerne l’importanza di un approccio storico alle specifiche discipline (storia della fisica, storia della chimica, storia della filosofia, storia dell’ingegneria) che non annulla affatto le dimensioni creative ed operative – che si realizzano nel presente – ma le inquadra in un percorso di lungo respiro e le connota come momenti di una sola parabola volta alla conoscenza della verità (o delle verità). Ogni disciplina, in altri termini, si caratterizza per una sua dimensione storica nella misura in cui non esistono affatto problemi e soluzioni che si propongono ex nihilo, ma esistono invece problemi e soluzioni che si definiscono sempre – in misura più o meno individuabile –

all’interno di un orizzonte comune di riflessione che si sviluppa dialetticamente secondo dinamiche complesse, sì, ma in fondo abbastanza chiare. Un esempio assai illuminante a questo proposito può essere quello che riguarda la triade di filosofi Parmenide, Platone e Aristotele per quanto concerne la fondamentale questione dell’essere. Il famoso parricidio di Parmenide realizzato da Platone è l’esempio calzante che dimostra l’intima connessione tra la nuova prospettiva, quella platonica, rispetto a quella superata, nel segno della critica costruttiva filosofica, parmenidea. Allo stesso modo le critiche aristoteliche (Categorie, Metafisica I, 9, Etica Nicomachea I, 4) hanno la funzione ambivalente di superamento e conservazione del sistema filosofico che lo Stagirita ha inteso superare. Ma alla domanda se fosse possibile studiare Aristotele senza considerare il sistema metafisico del suo maestro, Platone, la risposta sarebbe senza dubbio negativa. Questo vale anche per Tommaso d’Aquino, ad esempio, che ancora sotto profilo metafisico produce un nuovo e più complesso sistema che approfondisce quello aristotelico, non negandone i presupposti ma ampliandoli in senso intensivo. Gli esempi potrebbero potenzialmente essere infiniti – e ciò vale per ogni disciplina. La creazione di nuove teorie o, quantomeno, l’individuazione di possibili percorsi di ricerca non è mai qualcosa che nasce dal nulla, ma si innesta su un retroterra già esistente (che può essere la contemporaneità del filosofo o dello scienziato, il suo ambiente di studio e ricerca ma che può anche essere costituito dal suo background culturale) con il quale egli intrattiene una relazione di analisi, studio, confronto (diretto o diacronico) o collaborazione. L’intuizione geniale che sgorga all’improvviso, senza alcun apparente contatto con la realtà, ma che è appunto frutto della genialità strabiliante dello scienziato o del filosofo è piuttosto un mito ma non corrisponde affatto alle reali dinamiche del progresso del sapere. Ecco, dunque, il senso che ricercavo all’inizio, quando scrivevo che ci sono due modi, in fondo, di domandare “che senso ha studiare la storia di questa disciplina?”. Questo secondo modo è indice esplicito di un reale interesse verso la connotazione storica di ogni branca del sapere, laddove con ciò intendo dire che non esiste nessuna disciplina che possa incarnarsi nell’essere umano in modo estemporaneo e sganciato da ogni riferimento alla continuità della sua evoluzione. Con ciò voglio dire ancora che nessuna disciplina, inoltre, può diventare davvero creativa senza un reale confronto con la sua storia – remota e recente – e quindi è piuttosto necessario per il filosofo, per lo scienziato o per chiunque si muova all’interno dei vari ambiti del sapere inquadrarsi all’interno di una comunità di ricerca e sentire propri gli scopi che essa nel tempo, quindi nella storia, persegue.

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