Il bug che ha reso il Discover Weekly di Spotify più efficace e cosa ha rivelato (o confermato) sulle nostre abitudini di ascolto

Il canale più immediato attraverso il quale è possibile per noi venire in contatto con qualcosa di nuovo, sia che si tratti di un campo completamente inesplorato che di un elemento inedito in una galassia nota (come potrebbero essere rispettivamente un genere musicale tout court, al quale ci approcciamo per la prima volta, e un brano sconosciuto oppure una band o artista mai sentiti all’interno di un genere che già si conosce), è il suggerimento da parte di qualcuno con il quale ci capita abitualmente di parlare di musica, libri, film (qualunque sia l’oggetto della segnalazione), o con il quale, semplicemente, condividiamo una parte dei nostri gusti in materia.

Tra 2016 e 2017 Matthew Ogle, in qualità di Product Director per Spotify, ha ragionato proprio su questa dinamica nell’ideazione di alcune delle funzionalità più utilizzate dell’app, tra le quali il Release Radar e la protagonista di questo racconto, la Discover Weekly.

Il suo obiettivo era quello di personalizzare i suggerimenti musicali che la piattaforma era in grado di fornire ai suoi ascoltatori. Lo strumento che ha ideato è nato, come ogni prodotto destinato al successo, dall’osservazione dei comportamenti dei consumatori: a tutti, sostiene Ogle, piace ascoltare canzoni nuove; viceversa nessuno apprezza la fatica della ricerca, lo stress del dover selezionare (un fenomeno talvolta sperimentato anche dai fruitori delle piattaforme di video-streaming, nelle quali il catalogo sterminato e la possibilità di creare il proprio palinsesto – facendo sì che siano i programmi che vogliamo vedere a sintonizzarsi con noi e non viceversa – finisce spesso per generare una crisi decisiva che si risolve, dopo uno scroll interminabile, in un nulla di fatto).

Per venire incontro agli utenti della piattaforma nel loro più o meno passivo oscillare tra la volontà di ascoltare nuova musica e la scarsa propensione allo sforzo, Ogle ha pensato ad un software che facesse le veci delle amiche e degli amici che ci consigliano una o più canzoni. E in effetti il comportamento dell’algoritmo somiglia, nelle sue premesse, al meccanismo interpersonale di condivisione e scambio di suggerimenti: l’umanissimo “ti faccio una playlist” è stato trasformato in un algoritmo che sulla base delle playlist realizzate dagli utenti riesce ad individuare quali gruppi di canzoni compaiono spesso in nella medesima lista; combinando queste informazioni con le abitudini di ascolto del singolo utente, l’algoritmo è in grado di consigliare a ciascuno brani ignoti che altre persone tendono ad accostare ad altre da noi già conosciute e apprezzate. Si tratta di un meccanismo utilizzato anche da molti siti di e-commerce: i prodotti correlati, gli “You may also like” e “Spesso comprati insieme”, non fanno altro che proporre anche a noi un pattern di acquisto che per altri ha funzionato.

La Discover Weekly di Spotify era nata come una playlist di trenta canzoni mai ascoltate prima dall’utente destinatario. Chiunque abbia familiarità con questa funzione sa, però, che in quell’elenco di trenta vi sono anche canzoni da noi già ascoltate e tra queste alcune sono anche segnalate come nostre preferite, munite del cuoricino verde laterale.

Ebbene, questa piccola quota di familiarità sparsa nel mezzo di proposte del tutto nuove è l’esito di un bug emerso durante il primo test interno: l’algoritmo, per errore, aveva inserito nell’elenco anche canzoni già sentite. Il team di Spotify ha velocemente risolto il bug, ma con sorpresa ha dovuto constatare che, rispetto alla versione buggata, l’engagement degli utenti con la playlist di scoperte settimanali era diminuito.

L’essere umano apprezza ciò che conosce, ama riesperire e ripetere quella conoscenza e tende più facilmente a trovare piacevole ciò che è familiare o ciò che gli ricorda qualcosa di noto. Tra artisti del tutto sconosciuti, titoli che non ci dicono (ancora) nulla, musiche che non possiamo ancora immaginare, nel mezzo di questa folla estranea individuare un brano che riconosciamo, del quale siamo in grado di cantare tutto il testo, fare il controcanto e mimare contemporaneamente riff, percussioni, batteria e anche basso, scorgere tra tanti nomi mai sentiti prima quello di un artista al quale facilmente possiamo ricollegare una voce, un volto e dei pensieri, questa fiaccola di familiarità nel buio dell’inesplorato ha sul nostro cervello (ancora fortemente influenzato dal suo passato primitivo) l’effetto di una mano tesa sulla quale già sappiamo di poter fare affidamento: la familiarità piacevole che abbiamo con quel manipolo di canzoni note funge da garante per le altre, la loro presenza ci tranquillizza e ci spinge ad avventurarci in questo territorio inesplorato nel quale adesso, però, abbiamo i nostri punti di riferimento.

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