La Zattera della Medusa di Théodore Géricault

“Si stava iniziando al ministero della Marina un’inchiesta su quella fatale fregata La Medusa che doveva coprir di vergogna Chaumareix e di gloria Géricault”: così, nel suo Les Misérables Victor Hugo menziona, tra i fatti notabili dell’anno 1817 – un elenco che ha la funzione di dare un’idea del contesto politico-sociale cronologicamente più vicino ai personaggi – l’indagine sul disastroso naufragio avvenuto nell’estate dell’anno precedente in corrispondenza della costa della Mauritania.

La fregata Medusa, affidata al comando dell’incompetente e borioso Chaumareys, privo di capacità nautiche e di esperienza ma nobile e dunque ritenuto idoneo al ruolo di capitano, si era incagliata in un banco di sabbia; le sei scialuppe di cui era dotata la fregata non erano sufficienti per tutti i passeggeri (un dato che ricorre colpevolmente anche in altri disastri navali), dunque gli eccedenti – ad eccezione di coloro che preferirono rimanere sulla fregata – dovettero costruire una zattera che inizialmente fu trainata da coloro che erano riusciti ad ottenere un posto sulle scialuppe di salvataggio – tra i quali, naturalmente, era anche il capitano della nave nonché responsabile di quella tragedia; tuttavia quando, dopo qualche chilometro, la zattera cominciò ad affondare perché stracolma di uomini e donne e la cima che la legava alle scialuppe si allentò fino a rompersi, venne abbandonata lì, i suoi occupanti lasciati ad affondare. Alcuni morirono subito, altri dopo alcuni giorni preferirono gettarsi in mare; coloro che sopravvissero lo fecero a costo di atroci sofferenze e costretti, dal cieco ricatto della fame, a cibarsi di coloro che erano già morti. Il 17 luglio vennero soccorsi dal battello Argus.

I motivi per i quali questa storia fece scalpore sono evidenti: il cannibalismo, l’ingiustizia sociale (il capitano, infatti, se la cavò con sanzioni che oggi definiremmo amministrative e pecuniarie e con soli tre anni di carcere, pene estremamente generose dal momento che la punizione sarebbe dovuta essere, secondo la legge, la pena capitale), la tragica attesa di soccorso e il corpo a corpo con la natura che tanta parte occupava nell’orizzonte del pensiero ottocentesco.

Tra coloro che ne furono particolarmente colpiti ci fu anche, come ricorda Hugo, lo straordinario Géricault, il quale tra 1818 e 1819 dipinse forsennatamente una tela di quasi cinque metri per sette, un groviglio di figure umane sfinite, agitate, morte, meditabonde, speranzose che uniscono tutte le forze che sono loro rimaste per proiettarle, attraverso lo slancio delle figure più lontane dallo spettatore, verso l’orizzonte, nel quale si intravede un’imbarcazione, piccolissima eppure oggetto delle intense attenzioni di tutti – compresi noi osservatori, che dopo aver fatto scorrere mestamente lo sguardo sui corpi senza vita in primo piano e aver meditato sulla tragedia come l’anziano sulla sinistra, siamo sospinti dalla maestria di Géricault a seguire il fermento di quei corpi indaffarati che ci danno le spalle, ci sforziamo di individuare l’imbarcazione all’orizzonte e finalmente, quando la troviamo, torniamo allo svolare dei panni nel quale culmina questo sforzo collettivo; a quel punto ci preoccupiamo del vento che soffia in direzione contraria, allontanandoci dall’agognato oggetto delle nostre attenzioni, e allora torniamo a guardare con apprensione la piccola imbarcazione all’orizzonte, quasi temendo di vederla scomparire.

Esattamente come i personaggi della scena dipinta da Géricault e come i veri naufraghi della Medusa, noi non abbiamo modo di sapere se la lontana imbarcazione li vedrà oppure no: quello all’orizzonte potrebbe essere tanto il salvifico battello Argus quanto una delle navi che, nei tredici giorni trascorsi in balia delle acque, del terrore e della disperazione, non li videro, magari per poco, magari non viste a loro volta, e passarono oltre proseguendo il loro viaggio, ignari della tragedia che si stava consumando, lontani e sordi come la natura stessa.

Géricault condensa in un’immagine l’infinito ripetersi di morte e tormento, speranza, natura titanica e incontrollabile, scoramento e strenua lotta per la sopravvivenza che dovettero vivere anche le vittime e i superstiti del luglio 1816. Un’opera di altissimo pregio pittorico e di impellente, a tratti strangolante, stretta emotiva, un’opera raffinata e dirompente, che, prendendo in prestito le parole di Hugo, avrebbe ricoperto Géricault di una gloria artistica salda, intensa ed esatta come ciascuna delle sue pennellate.

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