Aspetti ideologici della sottocultura Emo

I ragazzi nati negli anni Novanta ricorderanno senza neanche troppa fatica quei giovani che affollavano le vie cittadine con le loro frangette lunghissime, i piercing che puntellavano sopracciglia e nasi e la matita nera per gli occhi utilizzata quasi a ricreare dei moderni Picasso. Quella degli emo viene considerata l’ultima vera sottocultura giovanile propriamente detta e, tra i pregiudizi di quanti (molti) non l’hanno mai pienamente compresa, ha coinvolto – con il suo impianto ideologico e stilistico – un’intera generazione che, ormai cresciuta, rivede in quegli sguardi vitrei e in quei capelli tenuti su con chili di gel solo un lontano (e non troppo piacevole) ricordo.

Le origini del termine “emo” sono da rintracciare nell’emocore, un sottogenere dell’hardcore punk, la cui principale peculiarità risiedeva nello spiccato interesse verso le emozioni e i sentimenti – in netto contrasto con l’ira, la politicizzazione e lo smashing stuff up propri del punk – che prende piede negli Stati Uniti intorno agli anni Settanta e Ottanta, toccando il suo acme durante i Novanta. Almeno inizialmente, “emo” erano le band di Washington DC (per esempio i Minor Threat) – epicentro catalizzatore dell’hardcore punk – e l’espressione pare designasse l’ambizione dei cantanti di “emozionare” il proprio pubblico. Il trascorrere degli anni ha coinciso con la nascita di una vera e propria sottocultura emo, i cui i protagonisti erano adolescenti dai 14 ai 19 anni, accomunati dalla necessità di sentirsi parte di un gruppo di pari, soddisfacendo così il narcisismo tipico della loro giovane età e plasmando la propria identità. In “Everybody hurts: an essential guide to emo culture”, Leslie Simon e Trevor Kelley sottolineano come “l’emo è sì ancora un genere musicale, ma molto di più è uno stato mentale. È un luogo dove le persone che si sentono fuori posto – ma dove chi si sente così vuole trovare dei propri omologhi – vengono a trovare riposo, e la ideologia ivi dominante è qualcosa che chi segue prende molto sul serio”.

Gli aspetti ideologici della “sottocultura delle emozioni” pervadono ogni momento della vita degli emo e si esplicano in un sistema valoriale ben preciso e organizzato: la depressione, la (presunta) spontaneità, l’empatia, la convinzione, l’insicurezza e la mancanza di atletismo. La depressione è il tratto più rappresentativo di quegli adolescenti che risultano accomunati da una stessa visione – fieramente drammatica – della vita; il

nichilismo e il pessimismo sono le solide fondamenta dello stato d’animo depressivo che sorgono sul terreno della tenace e coraggiosa convinzione che la vita, di per sé, non meriti di essere vissuta; la spontaneità coincide con la tendenza degli emo a sembrare completamente freddi e distaccati rispetto ai giudizi e alle opinioni altrui, atteggiamento che coinciderebbe più con un tentativo di dissimulazione che con una reale interiorizzazione dell’indifferenza (le ore passate davanti allo specchio per sistemare i capelli con lozioni di varia consistenza per avere l’aspetto di chi si è appena alzato dal letto ne sono un chiaro esempio): in altre parole, “essere emo significa inventare ostacoli inutili così da poterli superare”. L’empatia permea la vita dei giovani emo inducendoli a patrocinare cause, principi e valori sociali se non altro per spirito di appartenenza: basti pensare al veganismo, abbracciato da molti membri della sottocultura in virtù di un (apparente) bisogno di preservare qualunque forma di vita (quella stessa vita che non meriterebbe di essere vissuta, ndr). Alcune ricerche d’altronde (come quella svolta in seno all’Università del Michigan) avrebbero evidenziato che i ragazzi emo – proprio per questa spiccata profondità d’animo che li contraddistinguerebbe – sarebbero molto apprezzati dalle giovani adolescenti, troppo abituate allo “stereotipo dell’adolescente maschio” noncurante dei sentimenti e delle emozioni. La convinzione, invece, può essere così definita: “Quando i seguaci della cultura emo credono in qualcosa, lo fanno al 110% […] Per essere precisi, essere emo è soprattutto avere quell’incrollabile convizione che permette all’individuo di affrontare le sfide di un nuovo giorno (e di parlarne su un blog a fine giornata)”. L’insicurezza – tipica di quella fase di transizione che è l’adolescenza – nella sottocultura emo viene estremizzata, tanto da diventare la chiave di accesso alla membership (nonostante la si tenda sempre a mascherare con una sfacciata convinzione e sicurezza, ndr). Tra gli adolescenti d’altronde regnava una profonda avversione nei confronti dei giovani emo ed erano soprattutto i truzzi – la subcultura dell’aggressività – a nutrire un profondo disprezzo verso i giovani “emotivi”: su Internet nei primi anni Duemila era facile reperire blog e forum ricolmi di insulti e facili umorismi sugli emo (per esempio “sc-emo” et similia). A tal proposito – con una buona dose di ironia – Simon e Kelley sostengono che “l’insicurezza è un valore fondamentale inculcato agli emo già da giovani così da prepararli adeguatamente per la mediocrità della vita da classe media”. Per ciò che concerne la mancanza di atletismo, infine, i giovani qui considerati ritengono che lo sport implichi un esibizionismo e uno spirito di aggregazione che mal si concilierebbero con il loro bisogno vitale di interagire esclusivamente con la propria ristretta cerchia di conoscenti; è bene ricordare poi che il più delle attività svolte dagli emo implicano computer, cellulari, letti, divani e sedie: qualcosa di molto lontano da campi da calcio o da basket.

La “sottocultura delle emozioni” rappresenta ormai solo un ricordo nell’immaginario collettivo dei (non più giovanissimi) ragazzi di oggi. Ripensando ai pregiudizi, alle risate e alle prese in giro che ne hanno accompagnato l’alba e il tramonto, non è difficile provare una certa nostalgia verso quegli adolescenti un po’ malinconici e tristi che gremivano con la loro andatura noir le vie delle città. È evidente come gli emo si siano lasciati alle spalle un vuoto (sotto)culturale tale da non riuscire a essere riempito da nessun’altro modello identitario giovanile: il rischio è che l’impoverimento intellettuale che sembra caratterizzare le attuali generazioni possa quasi far desiderare l’avvento di un nuovo gruppo di “emotivi” che allo svilimento della figura femminile e all’esaltazione dei beni di lusso in canzoni dal dubbio valore artistico, preferiscono William Shakespeare, Jane Eyre, Emily Dickinson, Holden Caulfield e Buddy Holly. Ma forse è tipico di ogni generazione vedere in quella passata qualcosa di migliore. Chissà…

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