Quattro icone altomedievali a Roma: un connubio tradizionale di teologia e pittura

Di arte sacra, di qualsivoglia religione, è pieno il mondo; per ciò che riguarda il culto cristiano di confessione cattolica la città di Roma può vantare un arsenale artistico sterminato nel numero e nella varietà delle forme. Esistono però alcune tipologie di opere d’arte che – per condizioni storiche specifiche, eventi distruttivi o semplicemente perché realizzate in materiali facilmente deperibili – finiscono col diventare oggetti di particolare rarità.

Talvolta questo manipolo di ultimi sopravvissuti porta su di sé l’eredità di fenomeni artistici diffusissimi (spesso anche di lunga durata), dei quali, se solo potessimo affittare una DeLorean ed organizzare una visita nei secoli giusti, non avremmo difficoltà a trovare amplissima testimonianza.

Perciò anche a Roma, nonostante la presenza minuta e capillare di opere d’arte di ogni foggia e dimensione, esistono tipologie artistiche nelle quali non si incappa con la consueta frequenza, oggetti per i quali è necessario sapere dove cercare e cosa guardare.

Estremamente riconoscibili per i loro primissimi piani e i loro sfondi omogenei, nella maggior parte dei casi dorati, sono le cosiddette icone, antenate dei santini che oggi, tra una Madonna di Raffaello e una di Correggio, accompagnano e facilitano, con le loro immagini di santi e sante, le preghiere dei fedeli. Sono dette bizantine perché l’usanza, le modalità di rappresentazione, il formato e soprattutto le iconografie (i cui nomi infatti sono greci) associati a questi oggetti di culto hanno i loro modelli in produzioni tipiche della parte orientale dell’impero romano. Icone tra le più antiche in assoluto, infatti, possono essere ammirate nel Monastero di Santa Caterina al Monte Sinai: un Pantokrator e un San Pietro (e una Maria Regina un po’ più tarda) realizzati ad encausto e datati al VI secolo.

La fissità degli schemi compositivi e delle pose, ciascuna codificante un epiteto, una virtù o una funzione (specialmente nell’ottica dell’intercessione) del personaggio raffigurato erano garanzia non soltanto di correttezza teologica ai fini della preghiera, ma anche del valore dell’immagine: più somigliava all’archetipo più l’icona era sacra. L’aderenza alla grammatica e alle movenze lineari e cromatiche del modello, stilisticamente antico e dunque distante dai prodigi pittorici dei secoli successivi a quello nel quale il modello era stato concepito e realizzato, era proprio ciò che legittimava e rendeva affidabile l’icona come dispositivo di preghiera. Le icone più prestigiose, infatti, erano di due tipi: quelle che si riteneva avesse realizzato S. Luca, santo pittore, che avrebbe ritratto mentre ancora erano in vita la Madonna, Cristo e gli apostoli e avrebbe dunque affidato a quelle immagini archetipiche il vero sembiante di questi personaggi sacri; quelle dette acheropite, ossia non realizzate da mano umana, come il mandylion (sudario, panno) di Kamuliana e quello di Edessa, tessuti sui quali i cristiani ritengono si sia impresso il vero volto di Cristo.

A Roma (oltre alla celebre Salus Populi Romani) esistono quattro esempi di queste immagini tradizionali ed immediate, immobili pur nelle ridipinture, conservate e protette dai secoli ad esse successivi; queste immagini di culto mostrano l’arte pittorica romana in un momento di passaggio tra il tardoantico, ormai alle sue ultime battute, e l’alto medioevo.

Nonostante la rigidità consapevole, volontaria e tipica del linguaggio iconico, queste quattro Madonne presentano tra loro notevoli differenze stilistiche: in questo campo infatti i loro autori hanno potuto

ricavarsi quello spazio di autonomia e creatività che gli era invece in questo caso negato sul fronte iconografico.

Ognuna di esse, a seconda dell’iconografia, fa riferimento ad una specifica prerogativa o manifestazione della Vergine, che veniva venerata proprio nell’aspetto messo in scena dall’icona: una Odighitria (“che indica la Via”, ossia il Figlio che tiene in braccio) come quella del Pantheon esemplificava con un gesto della mano il concetto teologico di Cristo come via, verità e vita; una Theotokos (“Madre di Dio”) sanciva la maternità di Maria anche nei confronti della metà divina di Cristo, una posizione teologica divenuta ortodossa con il Concilio di Efeso (un esempio di Theotokos è offerto dall’icona – che potrebbe essere la più risalente delle quattro qui elencate – proveniente dalla basilica di S. Francesca Romana, la quale a sua volta aveva ereditato la tavola dalla più antica chiesa di S. Maria Antiqua nel momento in cui era stata interrata); la cosiddetta Madonna della Clemenza in S. Maria in Trastevere riporta invece un’iconografia, frequente anche nelle pitture ad affresco, detta di “Maria Regina”, che vede la Madonna assisa in trono e affiancata da angeli (solitamente due, uno per lato), composizione alla quale si aggiunge in questo caso un orante (ai suoi piedi); nella chiesa di S. Maria del Rosario in Monte Mario si trova invece un esempio di Haghiosoritissa, tipologia iconografica nota anche come Advocata Nostra, la cui particolarità risiede nella posizione leggermente decentrata di Maria, che è rivolta di lato nell’atto di intercedere in nome dei fedeli presso suo figlio (uno dei compiti liturgici più importanti della Vergine, lo stesso al quale fa appello Dante – col tramite letterario di San Bernardo – nel XXXIII canto del suo Paradiso): il gesto dell’intercessione prosegue nelle braccia sollevate e trova la sua conclusione nei palmi aperti delle mani.

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