Esposizione d’arte al Pantheon nella Roma seicentesca

Nella Roma seicentesca, strabordante di opere d’arte e pullulante di artisti, molte erano le mostre regolari organizzate dalle varie comunità cittadine, di solito in occasione di ricorrenze religiose. Erano occasioni per dare un megafono alla produzione del mercato sia artigianale che artistico, così da accorciare le distanze tra il prodotto e il potenziale compratore.

Ve n’erano di diverso indirizzo: in alcune di queste esposizioni non avremmo trovato quadri di storia né ritratti, generi destinati a tutt’altro ambiente, ma paesaggi e scene di genere, largamente richiesti dal pubblico e maggiormente adattabili alle pareti di ogni casa, senza la necessità che si trattasse della dimora principesca di un cardinale o di un nobile romano; in altre invece il livello era più alto e a partecipare, talvolta anche in qualità di organizzatori, erano pittori di chiarissima fama.

Tra le mostre regolari della città eterna la più seguita in assoluto si teneva in una location d’eccezione: il Pantheon, il tempio dedicato a tutte le divinità costruito una prima volta da Marco Vipsanio Agrippa, genero e generale del primo imperatore Augusto, e poi restaurato ai tempi di Adriano o del suo predecessore Traiano. Questo edificio circolare aveva una diretta corrispondenza con il suo “dirimpettaio”, all’altro capo del Campo Marzio: il Mausoleo di Augusto – il cui lungo restauro, terminato nello scorso anno, lo ha reso nuovamente accessibile al pubblico) – il quale una volta morto sarebbe stato divinizzato e dunque equiparato al rango degli altri dei.

Nate nei primi anni del Seicento queste esposizioni, dette di San Giuseppe perché organizzate in occasione della festa del santo, dunque ogni 19 marzo, erano organizzate dalla Congregazione dei Virtuosi, che mirava non tanto alla promozione dell’arte quanto a quella di opere di carità. A scegliere le opere che sarebbero state esposte erano proprio i membri della Congregazione.

I quadri scelti venivano esposti non all’interno della “Rotonda”, come si era soliti definire il Pantheon e come ricorda ancora il nome della piazza ad esso antistante, ma sotto al pronao, il porticato (dal soffitto del quale Urbano VIII Barberini ha prelevato il bronzo necessario alle colonne del Ciborio berniniano) e potevano essere opera di antichi maestri oppure di pittori contemporanei – tra i quali Velasquez (nel 1650) e, vero e proprio habitué, Salvator Rosa – i quali si adoperavano attivamente per suscitare il plauso del pubblico del 19 marzo, a beneficio della propria fama e, collateralmente, delle proprie tasche.

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