Johannes Burckard fu uno dei molti personaggi della corte papale nel famigerato XV secolo che, pur dotato di un’ambizione ampia quanto quella di molti dei cardinali che lo circondavano, non riuscì a farsi largo fino in fondo nella carriera ecclesiastica, in parte per i suoi natali, in parte perché poco piacevole, ben poco carismatico e, qualità per ovvie ragioni non gradita in un ambiente come quello curiale, ritenuto una malalingua, un uomo pronto a diffamare pur di dare corpo alle proprie ambizioni.
Nato in Alsazia intorno alla metà del Quattrocento Johannes, figlio di un carpentiere, compie il primo passo verso la sua futura professione presso il vescovo di Strasburgo, del quale diventa vicario. Allontanato in seguito alla scoperta di un illecito, nel 1467 giunge a Roma, dove conosce i cardinali Arcimboldi e Barbo. Successivamente, il papa Sisto IV Della Rovere (1471-84) lo nomina tesoriere pontificio, inaugurando la sua carriera nei palazzi del potere romani – quelli pontifici – e la sequela di incarichi e benefici ecclesiastici – dei quali le fonti raccontano che Burcardo fosse costantemente a caccia – che gli sarebbero stati assegnati nel corso degli anni.
Tra gli uffici per i quali è più noto – oltre alla nomina a provvisore della confraternita di S. Maria dell’Anima, per il restauro della quale Burcardo fa chiamare un maestro di Strasburgo che giunge appositamente a Roma – figurano la carica di protonotario apostolico e quella di maestro di cerimonie pontificio. La sua posizione di osservatore ravvicinato della curia romana – i vizi della quale venivano criticati con sempre maggiore fervore, soprattutto in ambiente tedesco – gli diede l’occasione di tenere nota degli avvenimenti più significativi (ma anche di altre vicende, non necessariamente ufficiali) con una dovizia di particolari che rende il suo Liber notarum una delle fonti più importanti per ricostruire le voci che popolavano al tempo la corte papale.
Il 15 marzo del 1491 Johannes Burckard prende in affitto dai monaci benedettini di Farfa una casa sulla via papalis e vicina alla zona più densamente popolata dai tedeschi residenti a Roma, dei quali il cerimoniere era certamente uno dei mediatori presso il papa. La risistemazione edilizia di questo complesso era prevista nello stesso contratto (non doveva dunque vertere in ottime condizioni): Burcardo si adopera dunque per consolidarne la Torre, che da quel momento assume l’appellativo di Argentina – Argentoratae era infatti il nome del castrum romano che anticamente sorgeva nei pressi di Strasburgo – e che tutt’ora è ricordata nel toponimo di Largo di Torre Argentina.
La torre – oggi riconoscibile solo dall’interno dell’edificio e dalle aperture che si aprono una sopra l’altra sul cortile interno – era parte del fabbricato precedente, del quale sopravvivono forse anche alcuni ambienti al livello delle fondamenta.
Nel marzo del 1500 Burcardo è sicuramente già orgoglioso inquilino del suo palazzo romano, che lui scelse di rinnovare miscelando la struttura delle residenze romane dell’epoca – a schiera, come la media delle case quattrocentesche di Roma, ma dotata di torre come le sfarzose dimore degli aristocratici – delle quali mantiene anche lo schema delle finestre per poi variarne, però, il disegno facendolo tendere verso un’andatura nordica, con le modanature slanciate, gli incavi profondi e la generale verticalizzazione delle linee.
Questo slancio tardogotico si intensifica e diventa più marcato all’interno, soprattutto grazie alla manodopera oltremontana: i lapicidi che si occupano della decorazione architettonica e scultorea della casa romana di Burcardo, infatti, provengono probabilmente dai domini asburgici e portano nell’abitazione del protonotario apostolico lo stile e il lessico di quei territori, rendendolo con maggiore carattere nell’interno dell’edificio e invece modulandolo sulle forme più piane della Roma classica e rinascimentale loro contemporanea all’esterno; quasi una dichiarazione architettonica di appartenenza: privata alsaziana, pubblica romana.
Il risultato fu un’installazione tardogotica, celebrata anche nei Mirabilia Urbis contemporanei, nel cuore della Roma che stava invece riacquisendo una sempre maggiore familiarità con il lessico imperiale, sobrio, monumentale e profondamente autoctono: un baluardo gotico affacciato sulla via papalis.