Dal Tondo Doni alla Sistina e viceversa: il riscatto del vero Michelangelo pittore

C’è stato un tempo nel quale molti storici dell’arte non reputavano che il Tondo Doni fosse un testimone attendibile delle tendenze cromatiche michelangiolesche, riconoscendole soltanto negli affreschi della Sistina.

Il Tondo, commissionato da Agnolo Doni come dono per la moglie Maddalena Strozzi in occasione, probabilmente, della nascita della loro primogenita, ha più di una ragione di celebrità: è l’unico dipinto su tavola per il quale v’è la certezza che sia stato realizzato da Michelangelo; il volto del committente e quello di sua moglie ci sono inoltre ben noti grazie ai ritratti che nel 1504 circa ha realizzato per loro Raffaello e che agli Uffizi sono attualmente collocati proprio accanto al Tondo; conosciamo perfino il prezzo di quest’opera, tramandato in un celebre aneddoto dal Vasari – nonostante egli esasperi almeno in parte, probabilmente, l’episodio – che racconta dell’eccessiva parsimonia del Doni e dell’infinita caparbietà di Michelangelo.

Con la stessa caparbietà nel corso della sua vita Michelangelo è stato in grado di realizzare opere in tempi e modalità che sfidavano e valicavano ampiamente i confini delle umane posse e anche, come in questo caso, farsi pagare da Doni il doppio della somma inizialmente pattuita come scotto per l’offesa che il nobile gli aveva recato rifiutando inizialmente di corrispondergli quanto concordato.

Al di là delle particolarità che lo circondano, il dipinto ha un deciso contenuto concettuale, tanto che per molto tempo non è stato semplice decifrarne gli elementi.

In primo piano troviamo una Sacra Famiglia monumentale, dai corpi muscolosi che, anatomicamente tesi, si avvolgono in una linea serpentina che dalla Vergine sale e si torce verso San Giuseppe, nel gesto della Madonna di porgergli un Gesù bambino che è già forte, già muscoloso.

Oltre l’insolito muretto troviamo una altrettanto insolita folla di corpi nudi che starebbe a significare l’umanità ancora vittima del peccato originale, che verrà cancellato, secondo il credo cattolico, solo dalla morte del bambino in primo piano. A metà tra i due gruppi, ancora peccatore ma già rivolto verso la nuova vita portata dal Cristo è il San Giovannino, il Battista: è infatti con il battesimo che i credenti si liberano del peccato originale e diventano degni di raggiungere Cristo, la Vergine e gli altri santi.

L’oggetto del nostro interesse, però, è il colore: un colore brillante, acceso e che si esprime nelle sue tonalità primarie; è un colore che mantiene il suo volume come farebbe una scultura ed è un colore che non si mescola: anche il chiaroscuro, infatti, è reso modulando la stessa tinta in forma più o meno profonda, senza l’utilizzo di bianco o nero.

Perfettamente coerente con il colore schietto e raggiante dal quale veniamo avvolti entrando nella Cappella Sistina; allora da dove proviene l’antico scetticismo nei confronti del Tondo?

Come ben visibile ormai soltanto nelle fotografie, la Sistina non ha sempre avuto questo aspetto abbagliante: fino agli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, gli affreschi apparivano foschi, spenti, a tratti macchiati.

Si sposavano molto bene con l’immagine di Michelangelo che andava per la maggiore, quella di un artista tormentato e scontroso, buio come le sue pitture. Per questo motivo non si voleva dare ascolto al colore vivace del Tondo Doni: si liquidava la questione affermando che affresco e dipinto su tavola fossero due tecniche diverse e, di conseguenza, non confrontabili.

Tanto era radicata nell’immaginario collettivo la tenebrosa pittura del più grande degli artisti che nel corso dei secoli questa idea aveva ispirato artisti come Füssli. Questa falsa credenza aveva offuscato, oltre al vero colore di quegli affreschi, anche la bontà del carattere di Michelangelo, che non era soltanto il personaggio silenzioso e scontroso che poteva prestare le sembianze al meditabondo Eraclito delle Stanze raffaellesche, ma anche l’uomo che per tutta la vita si è privato della quasi totalità dei suoi guadagni, vivendo al limite estremo della frugalità, così da poter mandare quanto più denaro possibile alla sua famiglia, a Firenze.

In verità i restauratori dei Musei Vaticani già a partire dagli anni Trenta del Novecento avevano scoperto che la patina scura che oscurava gli occhi di visitatori e studiosi non era altro che una coltre di fumo e polvere che era stata sigillata da colle animali e gomma arabica apposte in momenti ben successivi alla morte dell’ignaro Michelangelo; tuttavia, in più di un’occasione, avevano deciso di ricoprire tutto: né la tecnica né l’occhio pubblico erano pronti ad una tale rivoluzione.

Nel 1980, però, le tecniche di restauro erano avanzatissime – merito di Cesare Brandi e della sua scuola – e sia il Direttore, Carlo Pietrangeli, che il Capo Restauratore Gianluigi Colalucci (recentemente scomparso), erano ormai pronti, anzi, impazienti, di iniziare quei lavori, che dureranno fino al 1994 e che consegneranno nelle mani di una comunità scientifica maturata e quasi universalmente pronta ad accogliere il profondo cambiamento – nonostante non siano mancate alcune ostinate voci di critica – un Michelangelo dal cui pennello, finalmente, tornava a sgorgare un colore pieno e spavaldo, (vo)luminoso ed esplosivo come quello del Tondo Doni.

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