Microschegge di educazione interculturale: Viaggio in Egitto e ritorno al servizio di una esperienza scolastica alternativa.

Mi ritrovo in questo agosto del 1993 su un aereo diretto in Egitto, esattamente il volo Roma-il Cairo-Hurgada. Mi sono ripromesso di tenere un diario di bordo, come tutti i bravi viaggiatori d’Occidente ed esploratori della loro Africa. Ma non ci riesco ed ancora una volta credo che mi catapulterò nell’Africa del nord senza rete, ma col mio retaggio mediterraneo o, se si vuole, con le mie radici italiane. Vado in Egitto, non per capire tutto, ma per riportare qualche impressione diretta e personale, per poi trasmetterla anche,più o meno allo stesso modo, ai miei alunni. Essi non hanno bisogno di lunghe e noiose dissertazioni pseudoaccademiche, originate da una educazione interculturale neonata e già tradita e decrepita, ma di vive e vivaci testimonianze ragionate e vissute in diretta e in prima persona.

Già mi vedo a scuola con casco coloniale e sahariana, in tenuta da perfetto esploratore vittoriano con pipa alla Sherlock Holmes, mentre segno sulla mappa del Sahara il mio percorso tra terra incognita e i miei alunni mi lanciano sguardi inespressivi, aerei, barchette e corpi estranei e si spera non contundenti. Sull’aereo che mi accoglie con musiche soavi e melodiose, mi ritorna in mente un film in cui alcuni ragazzi americani affermano che il loro immaginario collettivo è costituito da eroi come John Wayne e da attrici come Marilyn Monroe. Anch’io sull’aereo mi sento un po’ Indiana Jones e mi aspetto di trovare al mio fianco, confondendo il sogno con la realtà, Marilyn, ma mi ritrovo invece, incredibile, ma è sempre così in certe realtà, al mio fianco, una suora cattolica egiziana. E già, tutti i mass-media ci bombardano per ricordarci ogni giorno o quasi della diffusione rapida e progressiva del fenomeno dell’estremismo islamico e dimentichiamo che l’Egitto è anche la terra del monachesimo e dei copti, una notevole minoranza cristiana antichissima, il 20 per cento della attuale popolazione egiziana. Come al solito, la mia mediterraneità mi aiuta molto e con tanta spontaneità chiedo alla suora di parlarmi della situazione egiziana. Non mi sembra molto entusiasta né desiderosa di parlarne; mi viene il dubbio di aver commesso qualche errore, poi all’improvviso mi dice: “guardi quelli lì; sono musulmani egiziani, bevono il miglior champagne che c’è a bordo in spregio alla loro religione, sono ricchi e con i loro soldi credono di poter zittire bambini e adulti presenti nell’aereo.” In effetti è vero, quei tre o quattro musulmani, uomini e donne, vistosamente e fastosamente ingioiellati e vestiti all’ultima moda italiana e inglese, sembrano darsi delle arie di padroni del mondo. Sono i soldi che danno alla testa: una malattia diffusissima in Occidente, soprattutto quando la ricchezza è di recente e rapida acquisizione. Nel frattempo alcuni passeggeri né islamici né egiziani intervengono e calmano la prepotenza e la tracotanza dei danarosi concittadini della suora. Se questi sono gli egiziani abbienti della nuova classe dirigente, comincio già a sospettare che qualche buon motivo per contestare, gli altri, i così detti estremisti islamici, possano anche averlo.

Sono sbarcato al Cairo, la mia preziosa suora mi lascia, mi sento già un po’ orfano; non la vedrò più. Ma non ho neanche il tempo di accorgermene che mi ritrovo assediato dalla folla babelica dell’Islam. Lo scalo aereo cairota è un bazar allucinante di razze e popoli, è l’Oriente, o meglio, la porta dell’Oriente che l’occidentalizzazione mondiale in corso non riesce ancora a fagocitare. Corro all’altro aeroporto il più in fretta possibile, sto per perdere la coincidenza con il volo per Hurgada, la località balneare egiziana sul Mar Rosso. Finalmente sbarco ad Hurgada, si, ma dov’è Hurgada? Intorno a me solo deserto sabbioso e pietroso, mentre sullo sfondo si stagliano montagne enormi altrettanto desertiche in un tardo pomeriggio bruciante e quasi asfissiante per la cappa di calore atroce e feroce.

A questo punto mi vengono in mente Stanley e Livingstone ed altri e mi ritengo fortunato perché io sono in vacanza, anche se comincio ad avere qualche dubbio sulla bontà della mia scelta. E ripenso alla storia, non saprei dire se attendibile o meno, di quell’esercito romano che sarebbe stato inviato dall’imperatore alla ricerca di mitici tesori sepolti, forse un vaghissimo ricordo e miraggio delle famose miniere di re Salomone. Di questa legione romana che avrebbe intravisto per ultima le montagne della Luna si sarebbero poi per sempre perse le tracce, inghiottita dalla fornace delle sabbie infuocate del deserto infinito e senza tempo. Mi vengono un po’ di brividi, perché le montagne sullo sfondo sembrano proprio assomigliare stranamente e sinistramente alle montagne della Luna, ma io non sono né un esploratore né un soldato romano e questo astroporto in mezzo al nulla mi dà già alla testa. Mi vien voglia di scappare e di prendere il primo aereo, ma di aerei in partenza per le prossime ore, giorni e settimane neanche a parlarne. Mi rimarrebbe come Mosè il Mar Rosso da attraversare, ma il Mar Rosso neanche si vede ed io non sono Mosè.

Di fronte a me, appare quasi magicamente come un miraggio, sarà vera o sarà falsa, chissà, il caldo qui è un macigno mostruoso e invisibile che rallenta i ritmi del pensiero e delle gambe, una faraonica mappa dell’Egitto: i miei occhi, chissà perché, cadono su Alessandria, sul Nilo e sull’Oasi di Siwa e mi vengono in mente sia i Francesi che Alessandro Magno, i quali, affascinati e rapiti anch’essi dai profondi e indefiniti misteri del deserto egiziano, non riuscirono neanche loro a penetrarlo, forse anch’essi afferrati dalla paura senza tempo del vuoto che circonda anche me.

La mia razionalità euro-mediterranea mi estranea dalla mia situazione non certo piacevole e mi fa pensare ai tentativi dei Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Veneziani, Francesi ed Inglesi di impossessarsi per sempre di una area strategica storicamente determinante che oggi comprende sia il Nilo che il Canale di Suez, che consente la comunicazione tra il Mediterraneo, il Mar Rosso e l’Oriente. E la risposta di questa civiltà millenaria agli oppressori ed invasori, da quel primo faraone monoteista e visionario fino al Mahdi, il messia islamico, si è quasi sempre manifestata col misticismo più radicale e rivoluzionario in una terra aspra e dura, in cui monaci, profeti e santi hanno sempre trovato facile seguito e ascolto presso gente perennemente in lotta contro la natura e i suoi presunti padroni, dai faraoni ai colonialisti europei.

All’improvviso mi ricordo che devo trovare un modo, un mezzo, per andarmene di lì. Voci che chiamano dal deserto tante, ma non sento quella giusta. Allora decido che è venuto il momento di sfoderare tutte le mie residue capacità e arti diplomatiche mediterranee. Col mio inglese pidgin, ad ascoltarlo la mia collega d’inglese inorridirebbe, un miscuglio infernale da porto franco e altro ancora, riesco quasi immediatamente a contattare la persona giusta: un ragazzo magro e allampanato, barbetta nera, asciutto come una aringa norvegese, ma molto simpatico, che ha tutta l’aria di avere qualcosa in comune con quei figli dell’Islam, che predicano e praticano il digiuno, l’astinenza, la moderazione ed altro ancora. Veste anche in modo molto sobrio, quasi ascetico, anche se indossa panni occidentali molto dimessi, quasi francescani.

Scambio con lui qualche battuta in inglese. Salgo su un piccolo pullman. Arrivo, dopo parecchi chilometri di pista polverosa attraverso una infinita e desolata distesa di sabbia, al mio hotel sul Mar Rosso. E’ come passare dall’Inferno al Paradiso, è la visione della Terra Promessa: hotel megagalattico supermoderno, di fronte il blu dipinto di blu, sconfinato e accecante del mare, alle spalle dell’albergo l’allucinazione del deserto, solcato da montagne altissime, spettrali e lunari. Un verde appena accennato circonda l’hotel che sembra, e lo è, un punto avanzato della civiltà occidentale, Fort Apache, in mezzo alla frontiera selvaggia oppure una base avanzata su un pianeta inesplorato, difficile dare un giudizio. Scoprirò più tardi che nell’interno di questo territorio ci sono delle vere e proprie riserve per popolazioni ancora allo stato primitivo. Qui mi accorgo di non avere il mio bagaglio. La mia vacanza relax si mette male. Maledico il giorno in cui ho deciso di venire in Egitto, maledico la mia agenzia e tutti quegli egiziani che si intestardiscono a fare gli estremisti piuttosto che pensare al mio bagaglio. La mia rabbia non accenna a sbollire anche perché dentro la borsa perduta c’è la clorochina che mi serve a combattere la malaria che qui, pare, imperversi. Qui, nel deserto, la farmacia non esiste e forse neanche sanno cosa sia e a che serve. Un bel guaio. Ma incontro un’anima pia, una bella ragazza italiana, che mi rifornisce gratis di clorochina e anche con splendido sorriso, Incomincio ad avere un po’ più di fiducia nel futuro. Mi aggiro un po’ meno sconsolato nel mio albergo, che comincia già ad apparirmi come un bunker dorato. C’è tutto in questo albergo, megapiscina, aria condizionata, telefono, televisione, ma le comunicazioni col mondo esterno, con la così detta civiltà, sono affidate a un satellite, che, a quanto pare, si comporta come una diva capricciosa e volubile, passa sul bunker raramente, quando meno te lo aspetti e ti serve: questi sono i nuovi imperscrutabili misteri dell’Egitto moderno.

Finalmente mi imbatto in quella che sembra essere la persona giusta, un egiziano altissimo e magro, quasi spiritato, che è una via di mezzo tra l’agente turistico e il poliziotto. Che appartenga alla polizia politica non è da escludere. Con lui riesco a contattare quella che dovrebbe essere la mia guida ufficiale: è un ragazzo strano, alquanto spaurito, si chiama Gabriel, non è musulmano, è cristiano. Orbita intorno ad una agenzia concorrente rispetto a quella del poliziotto. Ho più di un incontro con Gabriel, che, preso dal panico, minaccia. Intuisco che è successo qualcosa di grave, gli altri egiziani lo hanno stretto in una morsa. Gabriel non riesce a trovarmi la borsa, allora è un cattivo egiziano, non sa svolgere il suo lavoro e fa perdere la faccia al suo Paese, rischia di perdere anche il lavoro. Non so cosa fare. Lascio perdere, anche se la polizia gli sta addosso: qualcuno mi soffia all’orecchio che lo vogliono mettere in difficoltà anche perché è cristiano. Speriamo che sia solo un’ipotesi, ma ho qualche dubbio. Allora decido di fare da me. Raccolgo e pago qualche informazione, prendo un taxi e affronto da solo la casbah a pochi chilometri dal bunker. Speriamo che tutto fili liscio. Attraverso un pezzo di deserto con degli egiziani con i quali chiacchiero non senza qualche esitazione. L’auto è sgangherata, ancor più sgangherati il tassista e il suo accompagnatore. Nel deserto, in una automobile che perde pezzi e colpi,da solo, con due musulmani egiziani che non conosco, alla ricerca del bagaglio perduto. Mi rendo conto che sono bravi diavoli, non sono pericolosi terroristi islamici, è gente che cerca di sbarcare il lunario e sopravvivere. Mubarak, il presidente-dittatore della Repubblica araba d’Egitto, sta consolidando anche brutalmente una politica di espansione turistica selvaggia che sconvolge le antiche tradizioni arabe e islamiche del Paese. Il turismo di massa sta penetrando massicciamente in luoghi abituati da millenni all’isolamento. La rapida e disastrosa occidentalizzazione delle coste del Mar Rosso attraverso il turismo sta producendo grandi ricchezze in tutti quegli elementi sociali legati al regime e alla sua politica, ma la gran massa della popolazione egiziana islamica e tradizionalista non solo vede cadere rovinosamente le antiche barriere religiose, ma viene anche esclusa dal processo di produzione e distribuzione di tale recente ricchezza.Tanti giovani che non trovano lavoro, che non si inseriscono, trovano rifugio nell’Islam e in tutte quelle sette religiose estremistiche, che in Egitto predicano e praticano la violenza contro il regime e i turisti infedeli propagatori del verbo satanico e corruttore. D’altra parte il regime risponde con altrettanta inusitata violenza repressiva e il conflitto sociale e religioso non può che inasprirsi, come sta in effetti succedendo. Come sostiene A.Toynbee, basta che una scheggia della civiltà occidentale penetri anche pacificamente in una società per qualche tempo estranea al mondo occidentale e non ancora completamente pronta ad accoglierla, perché all’interno di questa società rimasta ai margini si scateni una reazione a catena tale da sconvolgerla prima lentamente, poi rapidamente dalle fondamenta: è quello che sta accadendo in Egitto.

Giungo finalmente nella casbah e così ho l’opportunità di osservare con i miei occhi la miseria indicibile della sua gente. Sarà la mia cattiva coscienza, ma non riesco a sopportare tanta miseria, tanta disperazione esibita con toni dimessi e dignitosi: è un pugno nel mio stomaco pieno. Parlo qualche minuto con i poliziotti e riparto a razzo.

Ritroverò la mia borsa anche grazie all’aiuto di alcuni ragazzi egiziani che ho conosciuto nel bunker. Mi vogliono dare loro qualche ricambio, una incantevole ragazza egiziana mi offre una camicia, quasi finisco sotto terra per la vergogna. Questa è gente, l’ho visto con i miei occhi, che spesso mangia un giorno si e un giorno no, e, quando mangiano, mangiano una sola volta al giorno fagioli con un po’ di pane e lavorano per 16 ore continuative. Mi invitano a pranzo e a cena nelle loro abitazioni, non me la sento di accettare. Mi metto a discutere con loro per giorni e notti ai bordi del Mar Rosso. Alcuni sono ossessionati dal rispetto dei precetti islamici, dalla sottomissione assoluta all’Islam. E’ una sensazione strana, anzi stranissima. E’ come se li avessi conosciuti da sempre. La mediterraneità rispunta? Forse. Ma rispunta anche una reciproca e profondissima calorosità umana. E cadono anche le così dette barriere culturali, se nel Mediterraneo sono mai esistite.

Uno di essi così si confida: “qui vedo ragazze europee ed egiziane in minigonna. La mia religione mi impedisce anche di guardarle e loro si comportano e si vestono in modi e in forme tali da profanare ancora di più la mia religione”. Io ho un momento di riflessione, poi gli rispondo che, se questa è la religione, è nella natura delle ragazze mostrarsi in quel modo e la religione è relativa. Mi rendo conto che il concetto è rivoluzionario per dei ragazzi islamici, ma la pulce nell’orecchio l’ho messa e vedo che cominciano a riflettere. “E della Bosnia cosa pensi ?”. Rispondo che, per me, di fronte al fanatismo religioso, avremmo l’obbligo di intervenire e sradicarlo e allo stesso tempo tollerare tutte le religioni: affermazioni, le mie, forse troppo europee e razionali di fronte a ragazzi educati all’Islam, ma il fatto che in pieno imperversare del fondamentalismo islamico riesca a parlare e a farmi ascoltare tranquillamente e seriamente non è poco, credo. Dopo tutto, dovrei essere quello che essi definirebbero un “infedele”.

Ho conosciuto anche delle altre ragazze italiane che non sono alla ricerca delle sorgenti del Nilo e dei suoi gioielli, ma alla ricerca dei sentimenti più profondi, smarriti dall’uomo in Occidente; a loro modo, percorrono questo pezzo d’Africa, cuore di tenebre, nella speranza di scoprirvi, o meglio, portare alla luce il principe azzurro che sicuramente si nasconde tra questi mitissimi egiziani. Sono brave ragazze che lavorano qui come guide che inseguono il loro sogno circondate da egiziani spasimanti e anelanti alla loro dolce compagnia ed amicizia. Il rispetto che leggo sul volto di questi egiziani nei loro confronti pare provenire da un altro mondo e da altri tempi, dai tempi della signorina Felicita, in realtà è frutto della tradizione coranica che sembra protegga le donne e in qualche modo le tenga in maggiore considerazione che in Occidente. Le ragazze sono entusiaste e non si lasciano sfuggire nessuna occasione per ricambiare l’estrema gentilezza e cortesia degli Egiziani. Forse questo atteggiamento è qualcosa che abbiamo perduto nella nostra educazione. E queste ragazze, che come e più di me, hanno deciso di lasciare il Bel Paese per venire a lavorare in Africa a contatto con gente diversa, assomigliano parecchio a quei protagonisti del film “Mediterraneo” del napoletano Salvadores che si esiliano quasi volontariamente per trovare altrove quello che non esiste più in Italia, nel disperato tentativo di inseguire il miraggio di una generazione alla perenne ricerca di se stessa.

Prima di andar via dall’Egitto, vorrei andare a Berenice Pancrazia, la città dell’oro, prima fenicia, poi greca e romana e bizantina nell’estremo Sud : da questa città sul Mar Rosso partivano le vie per l’interno per chi volesse cercare le famose miniere di re Salomone, ancora oggi un tragitto pericoloso. Ma non ci vado, la mia vacanza nella terra di Cleopatra volge al termine; le bombe islamiche che scoppiano al Cairo e in giro per l’Egitto e l’assenza delle autorità italiane mi spingono a lasciare questa terra del Mediterraneo lacerata da antiche e nuove, profonde contraddizioni. Anch’io, tornato a casa, potrò raccontare di aver bevuto più di qualche tazza di tè nel deserto, non lontano dai confini della Nubia e del Sudan, in mezzo agli ultimi Etiopi, come li definirebbero i nostri progenitori greci e romani.

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