Questo articolo nasce dalla lettura di un paragrafo di un libro (Giuseppe Vinci, Essere terapeuti. Forza e fragilità dello psicoterapeuta e della psicoterapia, Alpes, Roma, 2022) dedicato alla figura dello psicoterapeuta. In questo paragrafo assai interessante, intitolato “La psicoterapia come proprietà emergente di una relazione di qualità” (che è stato il primo che ho letto, peraltro) l’autore, che è un noto psicologo e psicoterapeuta italiano, sostiene una tesi che non è certo nuova, ma che vale la pena sempre ribadire e tener presente: la psicoterapia è una certa forma dell’umano. Le parole dell’autore non sono propriamente queste, ma il senso è assolutamente quello: pur configurandosi come professione, quello dello psicoterapeuta non è riducibile ad una prestazione interamente basata sulla formazione ricevuta in specifici corsi di laurea e di successiva specializzazione. Giustamente l’autore rileva che «si potranno leggere tutti i manuali, apprendere tutte le migliori tecniche, ma non serviranno a nulla se non si sarà in sufficiente contatto con se stessi e in profonda e autentica relazione con la persona con la persona che ha chiesto aiuto» (p. 7). L’autore si richiama con questa osservazione al problema più generale del rapporto tra competenze relazionali e conoscenze scientifiche che, pur se non sempre tematizzato e messo a fuoco, resta comunque perennemente sullo sfondo di una società, qual è la nostra per appunto, che alla sempre più scarsa attenzione verso la cura delle relazioni umane, sostituisce un sempre maggiore peso sugli aspetti quantificabili e oggettivabili della vita. Nelle professioni di aiuto tutto ciò si traduce in un maggiore accento posto sulla parola “professioni” e in un minor interesse rivolto invece all’altro corno dell’espressione, “di aiuto”. Tutto ciò significa che la professione di aiuto, anziché configurarsi come relazione, assume la forma della prestazione, annullando ogni possibilità di investimento affettivo, relazionale e umano nello spazio dispiegato dall’incontro terapeutico. Ma ciò è vero, si badi, per tutte le professioni di aiuto (quella più generale tra medico e paziente) e quella tra discente con bisogni educativi speciali e insegnante specializzato. Anche se questa non è la sede adatta per impostare un discorso così complesso, non posso non avanzare l’idea – quindi come mera dichiarazione volutamente priva di argomentazioni – che tra l’insegnante specializzato e il terapeuta esistono evidenti spazi di sovrapposizione. Questi spazi, che comunque non annullano affatto – è bene ribadirlo – le rispettive identità professionali e le relative metodologie, ci permettono di parlare univocamente di professioni di aiuto per entrambe (psicoterapia e insegnamento di sostegno) non dimenticando che in entrambi i casi, pur con le dovute differenze, il curante (che qui intendo letteralmente come “colui che si prende cura di…”) lotta, affronta, dialoga, interagisce e lavora con forme di sofferenza umana. Se il terapeuta si approccia a questa sofferenza senza nessun canale privilegiato dato a priori – ma anzi è alla ricerca, nelle primissime fasi della terapia, di un canale da seguire – l’insegnante di sostegno si avvicina a queste situazioni esistenziali quantomeno con una coordinata fissa, data evidentemente dallo scopo educativo e didattico (pedagogico) della sua missione professionale. Si potrebbe addirittura dire che questa coordinata pedagogica del lavoro dell’insegnante di sostegno carica forse ancor di più il suo fardello di responsabilità umana, ma non è un raffronto quantitativo tra le due professioni ciò che in questa sede – né in generale – mi interessa perseguire. Ciò che invece vorrei con forza ribadire è che la capacità relazionale assume, sia per il terapeuta sia per l’insegnante di sostegno, un valore imprescindibile e insostituibile, direi quasi primario. Giuseppe Vinci, l’autore del libro dal quale sono partito per la stesura di questo contributo, scrive: «prendersi cura di altre persone richiede insomma la mobilitazione consapevole di tutte le nostre migliori risorse intellettive, quelle razionalmente più sottili ed emotivamente più equilibrate, radicate nell’intuizione di quanto sia necessario prendersi cura dell’altro, e di quanto sia gratificante poiché la cura, in fondo e semplicemente, attua e compie la nostra natura di animali sociali» (p. 9). Un passo denso e significativo, che riconferma quanto scritto più sopra, che riformulo in conclusione a mo’ di prescrizione: non è corretto, almeno a mio modesto avviso, umanizzare le professioni di aiuto intendo con ciò una sorta di conservazione nell’ambito professionale di una dimensione umana residuale che garantirebbe il rispetto della sofferenza altrui. Questo è un errore di prospettiva: al contrario sono le professioni di aiuto a dover essere ricondotte e radicate nel vasto mare dell’umanità. Su questa base, umana per l’appunto, la conoscenza scientifica, intesa sia come formazione iniziale sia come aggiornamento continuo, agisce come catalizzatore di proprietà, le abilità sociali e la propensione empatica, che però il curante (insegnante o terapeuta) già possiede per natura.