La guerra è sempre ingiusta

La storia in quanto disciplina è senz’altro una delle più complesse faccende con le quali l’essere umano può arrivare a confrontarsi. Uno degli errori più grossolani (sebbene sia il più diffuso e anche il più ideologicamente pericoloso) è senz’altro quello di schierarsi aprioristicamente, quando ad esempio si studia un complesso fenomeno come quello della Seconda Guerra Mondiale, con uno schieramento piuttosto che con un altro. L’atteggiamento corretto, a mio modo di vedere, sarebbe senz’altro quello di una scientifica neutralità nello studio e una sensibile umanità nella conoscenza. Ciò vuol dire, in altri termini, che l’indagine su ciò che veramente accadde debba sicuramente porsi nei confronti degli eventi studiati con l’obiettività propria degli scienziati, mettendo da parte – ma non eclissando completamente – quel sentimento di umana empatia, inalienabile da ogni cuore puro e forte abbastanza da superare i confini di ristrette di bandiere e schieramenti. È proprio questa umana empatia a pormi in sintonia emotiva con gli animi dilaniati della popolazione di Stalingrado senza farmi disprezzare i fanti tedeschi (non nazisti) che presero parte alla mattanza, della quale loro stessi – come ci testimoniano nelle lettere – furono in qualche modo vittime. È ancora questo sentimento che ci fa empatizzare con i giapponesi dilaniati dalle bombe atomiche, oltre che con gli americani ingiustamente e barbaramente colpiti a Perl Harbor. E ancora questo sentimento che ci porta a commuoverci con gli abitanti di Dresda, illecitamente bombardati tra il 13 e il 14 febbraio del 1945, allo stesso modo in cui ci commoviamo leggendo del ferreo animo della popolazione britannica costretta a vivere sottoterra a causa degli incessanti attacchi della Luftwaffe. Gli esempi, certo, potrebbero continuare ma pur nella loro estrema diversità (di spazi, di tempi, di nazioni) non c’è uomo dal cuore puro che non possa sentirsi offeso per la morte e la distruzione che ogni Paese coinvolto nella WWII ha in fondo causato. Non si tratta certamente di sentimentalismo, quanto piuttosto di preservare quel senso profondo di appartenenza al genere umano che, leso da chiunque e ovunque, causa in noi un uguale e sincero senso di smarrimento e sbigottimento. Questa compartecipazione al dolore umano, che non ha bandiera, è in fondo alla base di quella neutralità proprio dello storico, la cui obiettività non va certo confusa con l’indifferenza, in quanto è piuttosto un sano e maturo conoscere in modo non ideologicamente orientato. La guerra annienta lo spirito e la dignità dell’uomo, sia se la si combatte da aggressori sia se la si combatte da difensori. Quando anche una nazione entrasse in guerra per un nobile motivo (come può esserlo in effetti il tentativo di bloccare lo sterminio che intanto un altro popolo sta brutalmente realizzando) il rischio che, con il tempo e l’accanirsi del conflitto, esso possa essere obnubilato fino al punto da dimenticare il rispetto necessario quantomeno della vita dell’innocente popolazione civile è difatti molto elevato. È accaduto ad esempio alla Gran Bretagna a all’America quando, dal 1942/1943 portarono avanti il programma di “distruzione delle città tedesche” (programma portato avanti da Arthur Travers Harris, meglio noto come Harris il bombardiere e che nel 1943 coinvolse anche gli americani con i loro noti raid di precisione giornalieri sulle città tedesche). Il punto è che in questo programma di sterminio realizzato dagli Alleati, non soltanto vennero distrutti i vitali centri industriali della poderosa macchina bellica nazista (Essen, Colonia, Dortmund, Bochum) ma furono prese di mira anche città non direttamente coinvolte nelle disumane logiche della guerra (è il caso del bombardamento della città barocca di Würburg, durante il quale perirono 4.000 persone). Il bombardamento di Dresda ha dato adito a dispute infinite. La cifra più attendibile delle vittime ammonta a 25.000, nonostante la propaganda nazista – nella persona di J. Goebbles – parlò addirittura di 250.000 morti. Sta di fatto che in quel momento a Dresda erano affluiti moltissimi profughi e che la città, pur costituendo uno snodo ferroviario importantissimo per la logistica bellica del fronte orientale non aveva, dal punto di vista industriale, un’importanza paragonabile ai centri della Ruhr ad esempio. Le difese antiaeree erano assolutamente inadeguate per contrastare un attacco simile che consolidò nella pubblica opinione – non soltanto tedesca – come una specie di crimine di guerra, mirante più a fiaccare il morale della popolazione tedesca che a neutralizzare obiettivi di certa importanza militare. La propaganda nazista usò tale episodio per infuocare gli animi della resistenza tedesca mentre gli Alleati rimarcarono l’alto valore militare dell’obiettivo Dresda. Al centro, o sarebbe più coretto dire oltre questi schieramenti, c’è invece quel risentimento umano che stringe il cuore di chiunque abbia contezza degli orrori subiti da una popolazione che sarebbe falso classificare, senza le opportune distinzioni e senza le necessarie precisazioni, come nazista (e lo stesso potrebbe dirsi della popolazione di Hiroshima e Nagasaki ingiustamente sterminata dagli attacchi nucleari americani nell’agosto del 1945). È giusto, quindi, non dimenticare mai che la morte non ha bandiera, e che quindi la vita di un civile tedesco non è meno preziosa rispetto a quella di un moscovita o di un londinese. Ogni guerra, dunque, è un atto criminale che tradisce la dignità dell’intelligenza umana, e che consegna – prima o dopo – ogni nazione che vi prende parte al grande calderone dei responsabili.

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