La Firenze di Savonarola e la fase savonaroliana del Salone dei Cinquecento

La voce che tuonò sopra Firenze accusandola di ciascuno dei suoi “vizi”, il volto incappucciato che con sinistro carisma piegò l’intera città alla sua rigida e spietata morale, fu anche responsabile della realizzazione della prima delle fasi decorative del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. Ciascuna di queste fasi corrisponde ad un diverso momento politico nella città del Giglio: una teocrazia a larga partecipazione, la Repubblica fiorentina nei ranghi della quale figuravano funzionari come Niccolò Machiavelli e il Ducato e poi Granducato di Cosimo I.

Al frate ferrarese si deve la costruzione stessa della Sala, della quale anche il nome porta con sé la memoria delle sue mire politiche: una maggiore partecipazione popolare al governo cittadino, una Repubblica che si emancipasse dallo strapotere mediceo al quale Savonarola si dimostrò ostile sin dal principio, anche quando, nel 1491, dopo essere stato eletto priore del convento di San Marco, si rifiutò di rendere omaggio a Lorenzo (che pure vorrà, nell’aprile 1492, averlo al suo capezzale nella Villa di Careggi) come avevano fatto i suoi predecessori. Del resto nemmeno la prospettiva della porpora cardinalizia offertagli in cambio di obbedienza da Alessandro VI riuscirà, nel 1496, a farlo desistere dai suoi propositi.

I Cinquecento che danno nome alla Sala erano, sul modello del Gran Consiglio veneziano, il suo tentativo per far sì che le decisioni venissero prese dal maggior numero possibile di cittadini. La decorazione della Sala (il cui progetto fu affidato agli architetti Simone del Pollaiolo e Francesco di Domenico) era scarna, priva di orpelli, nessuna frivolezza che potesse distrarre le menti dei cittadini; era anche più bassa, come il suo modello lagunare: il soffitto a capriate arrivava al livello della cornice in pietra serena (sarà Giorgio Vasari, in una Firenze completamente diversa, ad innalzarla al livello attuale e a coordinare la ricca decorazione voluta dal suo committente, Cosimo I).

La Firenze che il frate domenicano voleva riformare era una Firenze non più lasciva e lussuriosa, dedita al vizio e alla vanità come tipico, a suo modo di vedere, della corruzione morale dei tempi moderni; una città casta e morigerata, lontana dallo sfarzo e dalle scollature delle sfacciate giovani fiorentine (si lamenta anche di quelle, in una delle sue prediche) e lontana da tutto ciò che la rendeva viva fucina di arte e cultura, una Firenze spogliata e mortificata, chiusa nella morsa del cilicio come era lui. Al posto del tiranno Lorenzo voleva che a governarla fosse una teocrazia retta da lui e alimentata dal fuoco della paura.

Infatti lo strumento senza dubbio più potente del suo arsenale erano le sue prediche: la sua capacità retorica era tale che il popolo – sul quale aveva la maggiore presa – vedeva dispiegarsi di fronte a sé gli orrori dell’Inferno, si arrabbiava indignato insieme al frate e tremava udendo degli eterni supplizi ai quali sarebbe stato condannato se solo non si fosse convertito alla rettitudine proposta dal frate, proclamatosi messaggero di Dio e salvatore di anime che fino a quel momento avevano vissuto in modo secondo lui indegno e sacrilego.

Convincerà la città che era stata la culla del Rinascimento, un luogo di conversazione intellettuale, erudizione, di riscoperta dell’antico e di fiorire – teorico e pratico – delle arti, a ridurre in cenere, nel Falò delle Vanità del febbraio 1497, dipinti, manoscritti, vesti e gioielli che erano stati il suo vanto, persuasa adesso dalle infuocate parole del frate a considerarli pagani frutti del peccato, pericolosi portatori di lascivia, biglietti di sola andata verso le tre bocche di Lucifero.

Tra le sue critiche più feroci vi erano sicuramente quelle rivolte alla Curia romana, corrotta e dimentica della religione, della povertà e delle Sacre Scritture. Il papa in questione, Alessandro VI Borgia, combatterà con mezzi via via più severi la condanna del frate: né il breve col quale gli proibiva di predicare né l’offerta della nomina a Cardinale, posizione di elevatissimo rango ambita da qualsiasi uomo di Chiesa, riuscirono a far sì che addolcisse gli attacchi, tacesse o cambiasse atteggiamento.

Pare che in questa occasione Savonarola abbia risposto, rifiutando il galero cardinalizio, che l’unico cappello che voleva era quello dei santi martiri, un cappello di sangue. La morte, effettivamente, sarà l’ultimo atto della sua predicazione: dopo essere stato catturato dal partito mediceo, imprigionato nell’Alberghetto (nella Torre di Arnolfo) e torturato, venne condannato al rogo insieme a due suoi confratelli.

La sua ostinata determinazione gli portò numerosissimi nemici, ma lo rese anche una figura dai contorni leggendari, un’autorità spirituale integerrima e pura alla quale rivolgersi per purificarsi, un auto-proclamatosi profeta con la capacità di trascinare le folle a credere alle sue profezie e a temere una loro realizzazione; dopo averlo impiccato e arso in Piazza della Signoria – “per iniqua sentenza”, come si legge sulla lapide circolare apposta quattro secoli dopo la sua morte nel punto nel quale avvenne il rogo – se ne raccolsero le ceneri con grande attenzione e si gettarono in Arno, proprio per evitare che restassero, per i suoi numerosissimi e devoti seguaci, resti da venerare come reliquie.

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