Il caso Allen

Si apprende in questi giorni la notizia che la Lucky Red distribuirà in Italia a partire dal prossimo 3 Ottobre l’ultimo film di Woody Allen. Solo la Lucky Red. Una scelta coraggiosa.

Amazon infatti ha negato la distribuzione del film già ultimato “A rainy day in New York” (nel cast Jude Law, Elle Fanning, Timothée Chalamet, Selena Gomez, Liev Schreiber, Suki Waterhouse e Kelly Rohrbach). A creare problemi, sostiene Amazon, è la “bad publicity” che avrebbero prodotto i commenti di Allen alle rinnovate accuse nei suoi confronti della figlia Dylan Farrow e all’articolo del figlio Ronan Farrrow sulla vicenda Weinstein. Le accuse sono vecchie più di vent’anni, smentite da un verdetto di una corte, e riemerse in questi anni sull’onda del fenomeno #Meetoo. Allen stesso, con il suo stile ironico, descrive il meccanismo perverso in cui si ritrova: “C’è un’ atmosfera da caccia alle streghe … dove ogni ragazzo in un ufficio che strizza l’occhio a una donna deve improvvisamente chiamare un avvocato per difendersi”. Sembra che vi sia una vera e propria gogna mediatica per il regista di Manhattan.

L’intera vicenda suscita diverse domande. Innanzitutto la domanda sul rapporto tra pubblica espressione artistica e vita privata: può il giudizio sulla prima influenzare l’opinione sull’altra?

Più in generale inoltre si potrebbero cercare le cause e gli effetti di questa “atmosfera” di cui riferisce Allen. Da cosa nasce questa esigenza di denunce a cascata, quasi per contagio, e questa ricerca di mostri da isolare e sacrificare? É davvero utile il diffuso atteggiamento indignato e quasi vendicativo, specialmente in materia di violenza sessuale? Non si rischiano di alimentare risentimento e vecchi e nuovi tabù? Nell’inseguire il mito di una trasparenza completa, di un controllo assoluto di ogni sfera della vita, nell’illusione di debellare una volta per tutte il male morale, andando ben al di là del male legalmente accertato, non stiamo perdendo qualcosa, quantomeno in lucidità?

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