Elefanti da guerra

Al sorgere del 1 ottobre del 331 a.C., gli opliti macedoni videro qualcosa che non avrebbero dimenticato facilmente. Le truppe di Dario III, Imperatore di Persia, avevano messo in campo la più poderosa e terribile arma di guerra dell’antichità: al centro dello schieramento nemico stavano pronti all’attacco 15 animali sconosciuti, mastodontici, e furono talmente terrorizzati che Alessandro Magno, il loro re e comandante, decise di offrire un sacrificio a Phobos, il Dio della Paura, affinché donasse loro il coraggio di affrontare le bestie incredibili.

Si stima che la battaglia di Gaugamela costituisca il primo esempio in cui dei soldati occidentali vennero in contatto con gli elefanti da guerra; eppure i pachidermi venivano utilizzati per scopi militari già da otto secoli, in Asia. Si trattava di un’arma strategicamente esplosiva: quasi impossibili da uccidere con le frecce o le lance (il nome “pachiderma” etimologicamente indica, appunto, una pelle spessa), capaci di arrivare a una velocità di 30 km/h durante una carica, gli elefanti potevano sfondare le difese nemiche, calpestare e, nel caso degli elefanti africani muniti di zanne, infilzare i soldati della fazione avversa. Posti al centro del plotone di attacco, erano capaci di produrre una vera e propria carneficina, incutendo inoltre spavento e paura negli eserciti che non erano nemmeno a conoscenza della loro esistenza. Gli elefanti da guerra vennero utilizzati dal 1100 a.C. fino all’arrivo della polvere da sparo nel 1400 d.C., quindi per 25 secoli. Vi ricorderete degli elefanti di Pirro e, certamente, di quelli di Annibale, decimati dal freddo delle Alpi. Ma le battaglie in cui venne fatto uso dei mastodontici mammiferi non si contano. Durante le guerre Puniche, sulla schiena dell’elefante veniva spesso montata una piccola torretta capace di ospitare fino a tre arcieri, che potevano colpire da una posizione privilegiata – sembra che la torre del gioco degli scacchi originariamente fosse posta a cavallo di un elefante, e provenga proprio da questo importante pezzo di strategia militare. Non c’era cavalleria che resistesse agli elefanti, anche perché i cavalli erano normalmente impauriti dall’odore dei pachidermi. Sull’elefante venivano inoltre montate lame aggiuntive, principalmente sulla proboscide, e rinforzi per le zanne.

Tuttavia l’arma si rivelò piuttosto in fretta a doppio taglio: tutto stava, infatti, nel riuscire a spaventare gli animali. I Romani capirono che bastava ferire gli elefanti, o terrorizzarli con fanfare e trombe molto acute, perché essi cercassero la fuga, spesso ritorcendosi contro il nemico, travolgendo nella loro corsa le falangi che li seguivano. Apposite indicazioni vennero date agli arcieri e ai fanti per colpirli al tronco, in modo che le ferite li facessero imbizzarrire. Queste strategie fecero sì che il guidatore dell’elefante, il “mahout”, fosse dotato di uno scalpello e di un martello, per spezzare la spina dorsale dell’animale nel caso fosse colto dal

panico. Ci si accorse anche che gli elefanti erano facilmente spaventati dalle acute grida dei maiali; l’assedio di Megara fu infranto dopo che i Megaresi cosparsero di olio alcuni porci, a cui diedero fuoco e che spinsero poi verso le truppe nemiche. Gli elefanti, terrorizzati dalle grida degli infuocati maiali, devastarono il campo imbizzarriti.

Alcuni elefanti da guerra divennero famosi, come ad esempio Abul-Abbas, un elefante albino donato a Carlomagno dal califfo di Baghdad. Con l’avvento delle armi da fuoco, questo importante elemento militare venne a sfumare.

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