C’era una volta un vinello tanto decantato da poeti e musicisti: il Lambrusco

C’era una volta un vinello, sincero, esuberante e gioioso, tanto decantato da scrittori, poeti, musicisti. Nelle loro opere, versi, note, ne esaltano il gusto e ne glorificano la Vitis.

“Non sa ella, signora Contessa, che Domineddio fece apposta il Lambrusco per annaffiare la carne dell’animale caro ad Antonio Abate? E io, per glorificare Dio e benedire la sua provvidenza, mi fermai a Modena a lungo a meditare la sapienza…”

Ed è il tempo che fu, a segnarne la storia. Siamo nella seconda metà del XIX secolo, quando il celebre poeta Giosuè Carducci, in una lettera inviata alla contessa Ersilia Lovatelli, paragona il Lambrusco a un bene creato da Dio stesso.

Lo scrittore Curzio Malaparte’ nella prima metà del XX secolo, evidenzia lo stretto legame tra il Lambrusco, la musica di Giuseppe Verdi ed il romanzo ‘La Certosa di Parma’ di Stendhal.

Protagonista e fonte d’ispirazione il Lambrusco: vino rosso frizzante, italiano per eccellenza. Un nettare dalla tradizione antica che nasce nella campagna che da Parma si estende verso est sin nel territorio reggiano e, soprattutto, modenese.

Quella del Lambrusco è la famiglia di vitigni più diffusa nella campagna emiliana, dalle cui uve fragranti si ottiene un vino piacevole e versatile, al punto da essere il più esportato al mondo. La produzione di questo vino è un’arte che profuma di storia, di cui si individuano testimonianze addirittura in reperti egizi, sumeri e romani.

Il Lambrusco è uno dei vini più antichi. I primi riferimenti al vitigno del Lambrusco risalgono all’epoca romana, quando il termine ‘vitis labrusca’ era utilizzato nelle Ecloghe di Virgilio per individuare delle viti selvatiche dai frutti aspri che crescevano ai margini dei campi.

La diffusione in natura di queste viti risale all’età preistorica, con alcuni ritrovamenti di semi di vite silvestre in diverse aree padane e in insediamenti palafitticoli del bresciano, mantovano, modenese e parmense.

La conferma dell’antichità di questo vino, arriva dal rinvenimento di questi semi di risalenti all’età del bronzo, proprio nelle zone di produzione attuale del Lambrusco, le “terremare”, isole emergenti sugli acquitrini conseguenti allo scorrere del fiume Po.

Testimonianze dirette ci giungono poi dai latini. Nella sua quinta bucolica, già nel primo secolo avanti Cristo, Virgilio, citava la vitis labrusca; troviamo poi riferimenti nel De agri cultura di Catone, nel De re rustica di Varrone e in Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. In Naturalis Historia, Plinio il Vecchio fornisce diverse informazioni interessanti, nonché una prima caratterizzazione ampelografica: “la vitis vinifera le cui foglie, come quelle della vite labrusca, diventano di colore sanguigno prima di cadere”, e poi ancora “singolare remedium ad refrigerandos in morbis corporum ardores” per finire con una preziosa descrizione dell’ “uva prusinia dall’acino nero”.

Vi è traccia che siano stati gli Etruschi ad iniziare a coltivare nella Pianura Padana, tuttavia è solo con i Romani che si sviluppa una coltivazione più intensa e ragionata. Catone parla di vite selvatica e la chiama “labrusca” e per quanto fosse diffusa nella pianura padana, non ci sono prove che sia il Lambrusco odierno. Anzi ai tempi doveva essere un guazzabuglio, un’intricata selva di viti selvatiche che forse col tempo è diventata Lambrusco.

Per antonomasia il vino prodotto in queste zone è stato chiamato Lambrusco, ma stiamo parlando di millenni, di migrazioni, di guerre e di sconvolgimenti che ne hanno tracciato la storia. Solo nel 1600 si inizia a parlare di vino Lambrusco per indicare il vitigno che ancora oggi viene coltivato.

Ricostruire le origini della coltivazione di questo vitigno è altrettanto complesso.

L’antenato del Lambrusco era già noto 2.000 anni fa. Eppure soltanto agli inizi del XIV secolo si iniziò a coltivare in modo organizzato. Fu lo scrittore e agronomo bolognese Pietro De’ Crescenzi a dare ordine alla produzione di questo vino, abbandonando il carattere spontaneo delle viti e teorizzandone la coltivazione disciplinata suggerendo di prendere in considerazione la possibilità di coltivazione della vite labrusca. Due secoli più tardi il medico di papa Sisto V, Andrea Bacci, parla delle uve lambrusche che si coltivano sulle colline di fronte alla città di Modena dalle quali si ottengono vini rossi speziati, aromatici e spumeggianti per via delle bollicine. E’ proprio questa una delle prerogative che rende il Lambrusco uno dei vini più amati. La scelta di dotare il nettare di questa piacevole spuma è un retaggio della conquista da parte dei Longobardi che fermarono i propri eserciti alle porte dell’Esarcato di Ravenna, corrispondente circa all’attuale Romagna. I dominatori introdussero sul territorio alcune delle loro usanze come quella dell’allevamento del maiale allo stato semi brado. Fu così che i cibi cominciarono ad essere cotti con lo strutto invece che con l’olio d’oliva divenendo, dunque, più grassi ed untuosi. Per sgrassare il palato quando si consumavano queste portate, si diffuse la consuetudine di bere, e produrre, vini frizzanti come il Lambrusco.

L’ipotesi più diffusa circa l’origine del nome Lambrusco riguarda la derivazione dai termini latini labrum (orlo, margine) e ruscum (pianta spontanea): i Romani adottarono il termine labrusca per indicare il crescere spontaneo di questa vite nei perimetri dei campi. I primi vini della storia erano infatti prodotti con uve selvatiche, quelle che oggi definiamo viti “non addomesticate”. I Romani bevevano l’antenato del Lambrusco perfino in versione frizzante, attraverso una rifermentazione in anfora: dopo averle riempite e ben tappate, ponevano le anfore sotto terra o immerse per metà in acqua gelata, in modo da tenere bassa la temperatura del vino contenuto. Per renderlo frizzante, lo mettevano in una condizione termica di maggiore temperatura e dopo qualche giorno era possibile berlo.

La prima domesticazione delle viti selvatiche fu opera dei popoli paleoliguri, ma sono stati poi gli Etruschi a introdurre diversi elementi di specializzazione colturale delle viti quali la potatura, l’aratro e il vomere. Questi spunti tecnici offrirono ai colonizzatori romani la possibilità di intraprendere le coltivazioni autoctone della vite labrusca, dal quale poterono ricavare un vino leggero perfetto per i momenti conviviali dell’epoca.

La vite labrusca trovò un’ottima adattabilità in particolar modo nella zona di Modena, come confermano i successivi ritrovamenti di altri semi che provano che queste uve selvatiche fossero note anche agli Etruschi e ai Galli ligures.

La produzione di questo vino fu sempre ritenuta di grande importanza e prestigio; il suo successo viene confermato da alcuni documenti commerciali del 1850 che raccontano di come venisse esportato anche in Francia. Matilde di Canossa, regina di

quelle terre, sui territori conquistati dava sempre impulso alla coltura della vite proprio perché consapevole dei vantaggi economici.

Nato come un nutrimento dissetante per chi lavorava la terra, un vino con un residuo zuccherino, con la giusta energia senza eccedere nel grado alcolico, il Lambrusco è uno dei prodotti più cari alla tradizione contadina emiliana. Nel ‘900, infatti, era consuetudine dare ai braccianti che andavano a lavorare una bottiglia di vino, poiché considerato nutrimento necessario al pari del pane. Un’abitudine che ne ha stimolato la produzione, per soddisfare l’esigenza di un’elevata disponibilità di vino fresco e leggero. Quando si vinificava, si divideva la prima spremitura (il “mosto fiore”) dalla seconda (il torchiato). Quest’ultima veniva tagliata con acqua e data ai braccianti.

Nel corso degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, iniziò a prendere piede l’uso del metodo ‘Martinotti’ (o ‘Charmat’) per la produzione del Lambrusco. Se, da un lato, ciò portò a un notevole incremento delle bottiglie commercializzate, dall’altro spinse numerose aziende a porre maggiore attenzione alla quantità piuttosto che alla qualità del vino. Un siffatto Lambrusco, sebbene, almeno in parte, ‘snaturato’, divenne molto facile da bere ed in più estremamente a buon mercato, tanto da guadagnare il favore dei consumatori americani, che gli affibbiarono un nomignolo che esprimesse in modo chiaro la sua fama: la Coca Cola Italiana (o Red Cola).

Per anni, infatti, negli States lo si definiva una bibita piuttosto che un vino, per il suo carattere gioviale, simpatico, un frizzantino di poca levatura.

Negli anni ’80 il successo indiscriminato, una produzione di larga scala e rese altissime: tutti elementi che l’hanno reso per trent’anni un “vinello”.

Negli ultimi anni invece, i più lo snobbano e quasi se ne vergognano di berlo.

Poi il cambiamento: la sua rinascita, la decisione di tanti agricoltori di puntare sulla qualità, rese basse e caratteri indistinguibile di uno anzi, diversi, territori davvero unici.

Non che si possa chiamarlo con estrema facilità un grande vino se con “grande” il collegamento va dritto ai Barolo, Brunello, ecc. , ma la grandezza del Lambrusco sta nel suo carattere estremamente gioioso e schietto, che ne fa un vino per tutti i giorni, di grande beva, dal carattere indistinguibile e senza subìre alcun complesso di inferiorità.

A segnarne il cambiamento è il livello culturale, sia di chi produce sia di chi consuma.

In tutti questi anni, questo vino è riuscito ad assorbire ed incorporare non solo gli umori del terreno, ma anche la cultura e lo spirito stesso della gente che da sempre abita in questi luoghi.

Un tempo il Lambrusco era tondo, amabile, con zero tannini, un vino senza pretese capito e amato da tutti. Negli ultimi anni invece c’è una presa di coscienza: quelle uve hanno tanto da esprimere, un territorio unico e soprattutto un tannino gentile ma deciso, che nella versione secca esprime il meglio di sé.

I pregiudizi sul Lambrusco oggi cominciano a dissiparsi e la partenza è come sempre da una filosofia molto semplice: lavorare bene in vigna, pochi grappoli, molta selezione, minori rese per non sfruttare le viti e per una maggior concentrazione di estratto, fino a diventare uno dei vino più venduti al mondo.

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