Venezia e MOSE: quella polemica al di là del buon senso

Parrebbe che il livello dell’acqua alta a Venezia stia provvisoriamente scendendo; ma non risulta al momento pervenuta una simile sorte per il livello delle polemiche addensatesi attorno ai disastrosi eventi che vedono protagonista la laguna più famosa e fragile del mondo. Era dalla terribile marea del 1966 che Venezia non si trovava ad affrontare una prova dura come questa: si prevede che, in giornata di domenica, l’acqua alta raggiungerà i centosessanta centimetri.

Inevitabilmente, il pensiero collettivo – oltre che al benessere della città e dei propri abitanti – è andato al MOSE. Quel MOdulo Sperimentale Elettromeccanico i cui lavori iniziarono nel lontano 2003, ma che si trova ancora lontano dalla messa in attività. Un’opera eclettica, per certi versi mastodontica e sicuramente innovativa, sulla quale si è detto di tutto e di più.

Al di là delle polemiche di carattere ingegneristico e pseudoscientifico, che qui non rilevano – come l’ipotesi improbabile che il MOSE possa trasformare Venezia in una palude – l’opera ideata dall’ingegnere Alberto Scotti è oggi vista come una sorta di nuovo, lunghissimo cantiere di San Pietro. Per non parlare, e spesso lo si evita, delle scandalose vicende corruttive legate alla costruzione della grande opera.

Paradossalmente, quasi a voler sperare che un articolo nuovo possa coprire il vecchio, una di queste odierne polemiche è stata lanciata proprio da Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto, che si chiede a cosa serva il MOSE se non è stato in grado di difendere Venezia in questa situazione, e perché non sia stato messo in funzione.

Il problema intrinseco è che Zaia, governatore in Veneto dal 2010 e precedentemente vicepresidente della giunta regionale, dovrebbe conoscere benissimo la risposta alla sua domanda. E, con lui, chiunque nella Lega e fuori da essa finga di starsi ponendo, a scopo polemico, un simile quesito. Tra il 2013 e 2014, il MOSE è stato al centro di una inchiesta giudiziaria di dimensioni epocali, culminate nella scoperta di maxitangenti, false fatturazioni e loschi giri tra politica e imprenditoria.

L’imputato d’onore fu identificato nella figura di Giancarlo Galan (FI), presidente della Regione prima di Zaia, che avrebbe ricevuto milioni di euro sottobanco. Proprio lo scorso aprile, gli inquirenti sequestravano appartamenti di lusso a Dubai e fabbricati industriali in Veneto, apparentemente usati per riciclare tale denaro.

La politica che rese possibile lo sfruttamento illegale del progetto MOSE – il cui costo, oggi, ammonta a circa otto miliardi contro i cinque inizialmente previsti e ben prima della sua conclusione – è la stessa che oggi punta dita ovunque per alimentare la solita, quotidiana guerra della polemica politica su Internet e in televisione. E il tutto ha francamente poco senso, a meno che non si cerchi di sottintendere che “chiodo schiaccia chiodo”.

Ma, se poi ci si va realmente a chiedere perché il MOSE non sia stato attivato in occasione della recente marea, la risposta la fornisce senza troppi giri di parole proprio Alberto Scotti: mancano ancora due dei tre compressori necessari a far funzionare il sistema senza intoppi. Attivare il MOSE con uno solo di essi equivarrebbe a «guidare una Ferrari senza freni».

Compressori che oggi, senza i tentacoli che sono stati apposti sul MOSE dall’avidità umana, avrebbero potuto essere attivi e funzionanti, contribuendo a placare il dolore di Venezia.

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