IL MOBBING PUÒ CONFIGURARE IL REATO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) integrano il delitto di maltrattamenti in famiglia quando il soggetto agente versa in una posizione di supremazia, che si traduce nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, del soggetto passivo, riconducibile a un rapporto di natura para-familiare.

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19268/2022, è tornata a pronunciarsi a proposito della possibilità che il c.d. mobbing sfoci nella fattispecie criminosa di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572, comma 2, cod. pen.

Per mobbing si deve comunemente intendere una condotta del Datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (v. Cass. Sez. L. n. 3785/2009 e n. 22858/2008).

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del Datore di lavoro o del superiore gerarchico sono, pertanto, rilevanti come la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del Datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Secondo l’Art. 572 cod. pen. (Maltrattamenti contro familiari e conviventi), “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente (*), maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.

Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.

Il reato previsto dall’articolo 572 del codice penale, originariamente riferito a un contesto familiare, nel tempo è stato esteso anche a rapporti di tipo diverso, quali quelli di educazione e istruzione, cura, vigilanza e custodia, nonché a rapporti professionali e di prestazione d’opera.

Con riguardo a tale ultima categoria di rapporti, stando alla giurisprudenza di legittimità, affinché la condotta persecutoria e maltrattante del datore di lavoro in danno del dipendente (oppure, in ambito di rapporti professionali, del superiore nei confronti del sottoposto) possa essere sussunta nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 cod. pen., è indispensabile che il rapporto interpersonale sia caratterizzato dal tratto della para-familiarità.

Al riguardo, in Cass., Sez. III Pen., n. 40320/2015 si spiega che “l’ampliamento ad opera della giurisprudenza del perimetro delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo-familiare ha invero lasciato invariata la collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice nel titolo dei delitti in materia familiare, di tal che, ai fini della integrazione del reato, non è sufficiente la sussistenza di un generico rapporto di subordinazione/sovra-ordinazione, ma è appunto necessario che sussista il requisito della para-familiarità, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità”.

Si è detto anche che il c.d. mobbing può integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, qualora il rapporto tra il Datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. La para-familiarità, in altri termini, va intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie delle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia (v. Cass., Sez. VI pen., n. 14754/2018; n. 13088/2014; n. 28603/2013 e n. 685/2010, che ha escluso la configurabilità del reato in relazione a condotte vessatorie poste in essere dal capo squadra nei confronti di un operaio).

Pertanto, nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, è necessario che il soggetto attivo si trovi una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile a un rapporto di natura para-familiare (cfr. Cass., Sez. VI Pen., n. 43100/2011).

Da ultimo, questi principi di diritto sono stati ribaditi dai giudici penali della Corte di Cassazione con la sentenza n. 19268/2022, che ha riguardato i seguenti fatti. Nella fattispecie, il Tribunale di Cuneo – valorizzando l’esito della prova testimoniale – ha assolto l’amministratore unico di una società per azioni dal reato ex art. 572 c.p. – contestato in relazione a una serie di frequenti e reiterati comportamenti vessatori di mobbing (demansionamento, trasferimento, licenziamento, insulti, minacce, lesioni), tali da determinare l’emarginazione del dipendente – sul rilievo delle dimensioni notevoli della struttura aziendale che, essendo complessa e articolata in varie sedi e filiali e con circa 550 dipendenti rappresentati dalle organizzazioni sindacali, escludeva il carattere di para-familiarità del contesto lavorativo.

La Corte d’Appello di Torino ha ritenuto viceversa fondati gli appelli del P.M. e della parte civile e, dopo avere proceduto alla rinnovata audizione della persona offesa, ha affermato la colpevolezza dell’imputato in ordine al contestato reato, condannandolo alla pena di due anni di reclusione e al risarcimento del danno a favore della parte civile.

Il Collegio giudicante di secondo grado, nonostante le notevoli dimensioni dell’azienda, ha ritenuto che la potestà datoriale, facente capo al solo imputato, non escludeva in concreto la prossimità e la stretta relazione interpersonale esistente fra lo stesso e il lavoratore, secondo quanto da quest’ultimo affermato nel corso della deposizione testimoniale. A questo punto, su impulso dell’imputato, il giudizio è proseguito nelle aule del “Palazzaccio”.

Il ricorrente, per il tramite del proprio difensore di fiducia, ha chiesto l’annullamento del verdetto di colpevolezza, per vizio di motivazione e inosservanza sia dell’onere di motivazione rafforzata sia della regola dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. in caso di riforma della pronuncia assolutoria per non avere la Corte territoriale rinnovato l’istruttoria dibattimentale, limitandosi alla riaudizione della persona offesa senza procedere alla rinnovata escussione dei testi, le cui dichiarazioni erano state considerate decisive ai fini del proscioglimento in prime cure.

Il ricorrente ha inoltre denunziato la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 572 cod. pen. in materia di maltrattamenti per la evidente inconfigurabilità del requisito della para-familiarità nel rapporto di lavoro in esame, a fronte della struttura e delle dimensioni dell’azienda, della presenza e dell’intervento delle rappresentanze sindacali e delle iniziative giudiziali intraprese a tutela dei diritti del lavoratore.

Gli Ermellini hanno ritenuto fondati entrambi i motivi di censura, il che ha determinato l’annullamento della condanna e il rinvio della causa alla Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione, per la rinnovazione del giudizio. Difatti, il Tribunale aveva ritenuto di assolvere l’imputato perché l’esperita istruttoria aveva fornito precise indicazioni circa la realtà aziendale in cui era inserita la vicenda dei contestati comportamenti vessatori del datore di lavoro nel rapporto lavorativo de quo, in termini di dimensioni notevoli, di struttura complessa e articolata in più sedi e filiali, di impiego di numerose maestranze, di intervento delle rappresentanze sindacali dei lavoratori e di iniziative giudiziali a tutela dei diritti degli stessi. In particolare, l’esistenza di una relazione di prossimità, vicinanza o affidamento personale e fiduciario di K. verso C. e perciò di para-familiarità era rimasta esclusa alla stregua del tenore delle coerenti e attendibili dichiarazioni rese dai testi V., S. e R..

In linea di diritto, a sostegno della decisione, il Tribunale aveva richiamato l’ormai consolidato principio giurisprudenziale secondo cui le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da redazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e cioè s’inserisca nell’ambito di una situazione di para-familiarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie delle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia (Cass. Sez. 6, n. 14754 del 13.2.2018, M., Rv. 272804; Cass. Sez. 6, n. 13088 del 5.3.2014, B., Rv. 259591; Cass. Sez. 6, n. 28603 del 28.3.2013, S., Rv. 255976; v. anche Cass. Sez. 3, n. 13815 del 4.2.2021, P., Rv. 281588).

La Corte, per contro, è pervenuta a un giudizio di responsabilità dell’imputato ancorandolo alla esclusiva valorizzazione della deposizione della persona offesa, nell’ambito di una più larga ma astratta esegesi circa le ragioni e i limiti dell’inquadramento del mobbing nella fattispecie criminosa di cui all’art. 572, comma 2 c.p.

E però, ancor prima e al fine di ritenere acquisita la prova della colpevolezza dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, la Corte avrebbe dovuto procedere, ai sensi dell’art. 603, comma 3-bis c.p.p., alla doverosa rinnovazione istruttoria mediante le deposizioni di tutti i testimoni escussi nel giudizio di primo grado, avendo il primo giudice esplicitamente basato su tali prove dichiarative il convincimento che non potessero configurarsi, in linea di fatto, le caratteristiche della para-familiarità del rapporto lavorativo in esame. E ciò a maggior ragione ove si consideri la necessità, nel caso in esame, di acquisire e valutare la prova rigorosa della para-familiarità con riguardo ad un’azienda caratterizzata da un’organizzazione complessa e articolata.

D’altra parte, in linea di diritto, la giurisprudenza di legittimità, in ordine alla applicabilità della disciplina dell’art. 572 c.p. anche in ambito lavorativo, ha precisato che è necessario – oltre al rapporto di sovraordinazione – che il rapporto di lavoro si svolga con forme e modalità tali da assimilarne i caratteri a quelli propri di un rapporto di natura “para-familiare”, quindi con relazioni intense ed abituali, consuetudini di vita tra i soggetti interessati, soggezione di una parte con corrispondente supremazia dell’altra, fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia (Cass. Sez. 6, n. 24057 del 11.4.2014, M., Rv. 260066; Cass. Sez. 6, n. 12517 del 28.3.2012, R., Rv. 252607). La giurisprudenza ha escluso – ad esempio – la configurabilità del reato in casi di relazioni tra dirigente e dipendente di un’azienda di grandi dimensioni, sindaco e dipendente comunale, capo officina e meccanico, capo squadra e operaio. Vero è che l’art. 572 c.p. ha allargato l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello endofamiliare in senso stretto. E però non può ritenersi idoneo il mero contesto di generico, e generale, rapporto di subordinazione/sovraordinazione. Con particolare riferimento ai rapporti di lavoro, occorre che il soggetto agente versi in una posizione di supremazia, che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, del soggetto passivo, riconducibile a un rapporto di natura para-familiare (Cass. Sez. 6, n. 43100 del 10.10.2011, R.C. e P., Rv. 251368). Il presupposto della para-familiarità del rapporto di sovraordinazione si caratterizza, infatti, per la sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.

Di talché, in presenza di una pronuncia assolutoria in primo grado fondata prevalentemente sulla interpretazione e valutazione di prove dichiarative, l’apprezzamento giudiziale di responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio non poteva essere affidato a una mera rilettura alternativa dei medesimi dati alla luce della deposizione della sola persona offesa, ma pretendeva la previa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nei termini suindicati.

La sentenza impugnata va pertanto annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino, che si uniformerà al principio di diritto sopra enunciato.

P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Torino.

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