C’era una volta il reporter

REPORTERI libri di storia ci bombardano spesso con un susseguirsi di nomi, eventi, battaglie, date che albergano nella nostra memoria assai meno dei concetti generali. Alle volte proviamo la stessa difficoltà quando leggiamo le attuali cronache di guerra. Con l’egemonia del Web 2.0, esse si trasformano sempre di più in una raffica di informazioni, dati, luoghi, immagini e video, che esulano dalla figura di chi le racconta, o meglio, le dovrebbe raccontare. Un tempo ci si affidava esclusivamente agli inviati speciali. Persone fatte di carne ed ossa, che “pronti all’uso” preparavano lo zaino con  l’immancabile attrezzatura fotografica e partivano. I tempi d’attesa erano un po’ più lunghi, ma in cambio c’era la certezza di rimettersi agli occhi e all’udito di qualcuno che era lì di persona, qualcuno riconoscibile. Oggi, quando vediamo un video su youtube che riporta un “fatto” appena accaduto in una zona di guerra, sappiamo che l’identità di colui/colei che l’ha girato non è garantita. I filmati si moltiplicano, sono accessibili e rivedibili da chiunque viva in un paese che non attui la censura. E così, i preziosi resoconti dei reporter di guerra sono scavalcati dall’immediatezza nuda e cruda delle immagini che subito invadono la rete. Con il passare degli anni il web mostra però anche i suoi difetti e così accade che il video-testimonianza di un eccidio avvenuto in un determinato luogo e in una determinata data, si riveli inerente a un altro evento. Non è da escludere che importantissime emittenti televisive lo prendano per buono e ne facciano notizia. A questo punto si capisce quanto l’esperienza del famoso reporter, quello che consuma le suole delle sue scarpe sul terreno di guerra, possa essere l’unico mediatore in grado di fare chiarezza nel mare magnum di informazioni. Non solo i regimi, ma anche i suoi oppositori, hanno compreso l’importanza della manipolazione dell’opinione pubblica attraverso il web, spesso con esiti positivi per il destino di un popolo. Le Primavere arabe sono particolarmente esemplari da questo punto di vista. Chi le ha sostenute ha capito la potenza che può liberarsi in seguito alla scrittura di uno “stato” su una pagina Facebook o attraverso la pubblicazione di un tweet, che inciti alla ribellione, accompagnato eventualmente dalla foto di un massacro. La crisi siriana non è esente da tutto quello che abbiamo detto finora. Anzi, in questo caso, non potendo appellarci agli inviati di guerra, che lì hanno ormai vita difficile, se non impossibile, siamo costretti a fare riferimento sempre di più alle notizie fornite dalla rete. Facendo un giro su Twitter è possibile seguire perfino le notizie divulgate dall’agenzia di stampa siriana filogovernativa SANA, che mostra al mondo una visione della Damasco contemporanea in rotta collisione con quella descritta dalla maggior parte dei media. Scorrendo i numerosi tweet si scovano serate canterine, arte e intrattenimento, che stando a quanto riportato dalla pagina, continuerebbero al di là della situazione critica del paese. I post dei vari appuntamenti canori durante i “Saturday nights”, sabati sera, si alternano alle foto dei danni causati dai “terrorist attacks”, gli attacchi terroristici, così come vengono definiti quelli provocati dai ribelli. Una situazione surreale per l’utente che naviga in rete, il quale da una parte ha l’idea di una Siria polverizzata e dall’altra legge degli improbabili appuntamenti in corso nella capitale. E’ a questo punto che rimpiangiamo la figura del reporter, capace di distinguere fra propaganda o verità. Presto comprenderemo tutti la necessità di riportare in primo piano la sua voce, attualmente spodestata da molti, che si improvvisano giornalisti, per il solo fatto di aver diffuso foto e video in rete, di cui spesso, lo ribadiamo, non è possibile nemmeno conoscere l’identità e/o veridicità.

 Silvia Di Pasquale

 

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