Subire o scegliere la propria psicoterapia?

La scelta di una psicoterapia non dovrebbe mai essere casuale. In effetti la preferenza del nostro terapeuta dovrebbe innanzitutto prescindere dai giudizi positivi e negativi dei pazienti (nostri conoscenti, amici o familiari) che lo hanno frequentato e da tutte le altre questioni più o meno interessanti che potrebbero intervenire nel nostro processo decisionale. Un’adeguata valutazione del terapeuta dovrebbe prima di tutto tenere in considerazione l’unico criterio importante nella fase propedeutica al cominciamento dello stesso percorso terapico: l’indirizzo di specializzazione del terapeuta. È notorio che l’attività di psicoterapeuta è esercitabile da chiunque abbia conseguito una laurea in medicina e chirurgia o in psicologia e abbia poi perfezionato il corso di studi con un percorso di specializzazione (almeno quadriennale) così com’è prescritto dal decreto del Presidente della Repubblica del 10 marzo 1982, n. 162.

La scuola di specializzazione non solo dà l’impronta finale al percorso di studi e formazione del futuro terapeuta, ma ne determina la concezione antropologica in base alla quale si calibrerà poi, nell’effettiva pratica clinica, l’approccio psicoterapeutico. Le strategie terapeutiche, infatti, manifestano il loro peculiare significato soltanto se sono adeguatamente inquadrate all’interno di quella precisa visione dell’uomo che è proprio l’indirizzo di specializzazione a veicolare esplicitamente. Non esiste, infatti, una strategia psicoterapeutica (vale a dire una ‘tecnica’) avulsa da una precisa visione antropologica che sta a monte della pratica clinica: agere sequitur esse.

Un’azione volta a rendere cosciente e governabile l’universo psichico dell’inconscio è comprensibile soltanto a partire da una visione dell’uomo secondo cui la coscienza costituisce soltanto una parte – e nemmeno la più importante – dell’architettura psichica dell’essere umano (psicanalisi freudiana). Un’azione volta invece a ristrutturare il complesso cognitivo dell’essere umano non può non prendere le mosse da una visione antropologica che considera determinante per il benessere dell’uomo la componente cognitiva (psicoterapia cognitivo-comportamentale). Un’azione finalizzata al lavorio sugli aspetti metacognitivi presuppone una visione antropologica tale per cui è l’immagine che l’uomo ha di se stesso (fatta soprattutto di giudizi auto-attribuiti) ad essere determinante per l’equilibrio complessivo della sua esistenza (Rational-Emotive Behaviour Therapy – REBT). Ancora: un intervento primariamente indirizzato ai blocchi comportamentali e agli evitamenti non può non presupporre una visione antropologica secondo cui il fare, dunque l’operatività, ha una precedenza non soltanto logica ma ontologica nell’orizzonte della vita umana (psicoterapia breve e strategica). Sebbene gli esempi potrebbero continuare la tesi centrale di questo contributo ritengo sia già grossolanamente emersa. La scelta del percorso psicoterapeutico più adeguato deve preliminarmente rispondere alla domanda fondamentale: qual è la concezione dell’uomo che il soggetto sofferente ha?

Anche se una simile domanda può sembrare cervellotica, inutile e finanche dannosa in alcune circostanze, io ritengo che il buon esito di una psicoterapia dipenda molto, se non in gran parte, dalla fiducia che il soggetto ripone nell’azione del terapeuta. Tale fiducia, però, lungi dall’essere un mero affidamento personale all’umanità dello specialista consultato (e questo sarebbe già tanto) deve necessariamente possedere anche una dimensione per così dire intellettualistica, laddove con questo termine non intendo affatto sostenere – anzi, lo nego risolutamente – uno sbilanciamento tutto a favore delle riflessioni razionali sulle altre dimensioni dell’essere umano quanto piuttosto una basilare consapevolezza sul modo in cui il terapeuta agirà, su quali saranno i target del suo intervento e sul perché agirà in un certo modo piuttosto che in un altro.

Mi rendo conto perfettamente che la tesi appena presentata si espone a delle possibili critiche, alcune delle quali radicali e convincenti. In questa sede ne vorrei segnalare due, che reputo

particolarmente interessanti. Innanzitutto qualcuno potrebbe sostenere che questa prospettiva corre il rischio di mettere il “carro davanti ai buoi”, poiché il soggetto sofferente, possedendo simili consapevolezze, si troverebbe già in una situazione di avanzata autoanalisi fin dal momento del cominciamento del percorso psicoterapeutico. Ancora: una simile prospettiva potrebbe veicolare l’idea che il percorso psicoterapeutico sia adatto soltanto a coloro che abbiano spiccate qualità intellettive e una solida cultura nel vasto campo della psicopatologia.

Innanzitutto vorrei chiarire un punto importante: la mia tesi non riguarda coloro che per la radicalità dei vissuti sofferenti o per l’incapacità – transitoria o permanente – di autodeterminarsi coscientemente sono impossibilitati a prendersi consapevolmente cura di sé. In regime di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) sarebbe inverosimile attendersi dal soggetto delle riflessioni esistenziali sul tipo di percorso più adatto e confacente alla sua Weltanschauung. Unitamente a queste casistiche vanno annoverati i casi in cui i soggetti, essendo nelle prime fasi dell’età evolutiva, non sono ancora in grado di produrre una visione del mondo e dell’uomo chiara, consapevole e fondata. In simili circostanze è l’intervento genitoriale che indirizza il figlio verso il percorso psicoterapeutico ritenuto più idoneo.

Eccetto dunque questi casi (ai quali bisognerebbe aggiungere le infinite eccezioni imponderabili) io ritengo che gli unici limiti che potrebbero impedire un’adeguata e consapevole scelta psicoterapeutica siano di tipo culturale. Con ciò, però, non si richiede grossolanamente al soggetto una competenza tale da eguagliare quella dello specialista. Sarebbe invece più opportuno, e più realistico, una sorta di competenza di base creatasi da letture formative (non necessariamente attinenti al corso di studi seguito o alla propria professione effettiva) e da riflessioni sulla propria condizione esistenziale, sulla propria identità e in generale sul senso dell’esistenza e su tutte le tematiche ad esso connesse. Un profilo siffatto, oggi purtroppo sempre più raro per l’estinzione drammatica della popolazione dei lettori, si pone nei confronti del terapeuta e della stessa terapia in un modo decisamente più attivo e partecipe, evitando quelle forme di assoluta passività che si rintracciano spesso, purtroppo, nella pratica della psichiatria organicista.

A differenza di ciò che accade nelle altre branche della medicina, per quanto concerne le psicoterapie c’è da dire che entrano in gioco altri fattori importanti da tenere in considerazione, e in particolare meritano di essere segnalati: l’immagine che il soggetto ha di sé, il senso che attribuisce alla stessa terapia, il grado di consapevolezza del problema (o dei problemi) che accusa, il suo livello culturale, la sua struttura di personalità. Tutti questi fattori non entrano in gioco, perlomeno non in modo così pervasivo e determinante, nelle terapie prescritte da altri specialisti afferenti alle altre branche della medicina. Quando un paziente, sulla base delle sue particolari convinzioni, si affida a pratiche mediche alternative rispetto a quelle codificate dalla medicina tradizionale lo si guarda sempre con una certa aria di sospetto e di sfiducia. Nel vasto mondo delle psicoterapie, invece, questa non è l’eccezione, ma la regola. Non solo le convinzioni del soggetto guidano (o dovrebbero guidare) la scelta della psicoterapia più adatta, ma intervengono massicciamente nello stesso percorso terapeutico, veicolando attenzioni, energie, sforzi e osservazioni del soggetto stesso verso quelle parti di sé distorte e/o mal funzionanti alle quali, con uno sforzo sinergico, anche il terapeuta guarderà proprio per la sua specifica formazione di cui parlavo all’inizio dell’articolo. È questa l’origine di quella sinergia profonda e curativa, che rende un intervento psicologico realmente terapeutico.

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