Stiamo lontani dal Covid fisicamente e mentalmente.

Secondo il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi il 63% delle italiane/degli italiani risentono dell’effetto psicologico del Covid sul loro generale senso di benessere personale. Uno stato di sofferenza psicologica che si manifesta sotto forma di ansia, depressione, insonnia o al contrario di ipersonnia. Dati che derivano da uno studio condotto con l’Istituto Piepoli, per capire in che modo la pandemia stia interessando e preoccupando non solo per le conseguenze sul fisico delle persone, ma anche sulle loro menti.

Ma cosa causa, diciamo “primariamente”, questo disagio?

Sicuramente, la mancanza di una prospettiva futura e il senso di essere “ferme/i”. Necessariamente e sanzionatamente “ferme/i”.

È chiaro che influiscono la paura della perdita del lavoro, la potenziale perdita degli affetti, la fragilità percepita rispetto alla propria salute e a quella delle persone care, il distanziamento fisico che diventa distanziamento sociale e si tramuta in diffidenza verso il prossimo, la precarietà che assume il tratto di una costante dell’esistenza. Così come la privazione della libertà personale di movimento, i vincoli alla circolazione, il rinchiudersi sempre più in spazi ristretti, conosciuti, ritenuti “sicuri”.

Fra le conseguenze di questa percepita problematicità circostante vi sono così l’insonnia, il mal di testa, il mal di stomaco, l’ansia, il panico, la depressione. Dall’inizio del lockdown il 63% della popolazione vive male o comunque vie peggio di prima, non solo e non necessariamente con riferimento ai soldi che ha nel portafogli o sul conto corrente. Aumenta lo stress e diminuisce la capacità percepita di coping, davanti a un’emergenza sanitaria che molte/i avvertono come al di fuori della propria portata e del proprio controllo. Un nemico invisibile, quindi difficile da fronteggiare, se non attraverso misure di igiene e di evitamento consigliate.

Se il nemico (il Covid-19) è subdolo e nascosto, anche il disagio, soprattutto quello psicologico, è nascosto rispetto al malessere e al timore di danni fisici causati dall’epidemia. Mentre le persone ricoverate sono visibili, ricevono cura e attenzioni, sono “viste”, il disagio mentale è spesso invisibile. L’effetto è quello di dover far dipendere il proprio “esserci” dai dati numerici (per es. il ricorso ad ansiolitici, la ricerca ossessiva di consigli medici, il ritiro sociale etc). Ai quali si aggiunge la “testimonianza” delle difficoltà di altre/i, come le file alle mense per i poveri (la Caritas denuncia un incremento del 114% rispetto al periodo pre-pandemia), le proteste di intere categorie di lavoratori/ici messe/i in difficoltà dai lockdown, la convivenza forzosa in famiglia. Non dimentichiamoci infatti che la convivenza può essere bella quando è armoniosa e trasmette sicurezza, ma può essere un luogo infernale, fonte di stress e di pericolo, quando non lo è. E per molte o alcune (uso volutamente il femminile) non lo è affatto. Considerato il numero elevato di denunce per maltrattamenti e di femminicidi registrati in questo periodo. E che rappresentano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno altrettanto subdolo e sotterraneo come la violenza di genere.

La pandemia sta scoperchiando un vaso di Pandora fatto di precarietà esistenziali e relazionali che prima, pur esistendo, potevano essere diluite da altri canali di alleggerimento della tensione. Ora no. Rimangono anch’esse chiuse fra le mura domestiche, bloccate insieme a chi vi abita. Una società in cui la proiezione verso il futuro, il fare progetti (di viaggi, di uscite, di lavoro, di vita personale e famigliare) si è trovata improvvisamente a guardarsi allo specchio, nel “qui e ora”, e a vedersi in tutte le sue imperfezioni e debolezze.

Semplicemente, qualcosa che non avevamo l’abitudine di fare, immerse/i come eravamo in un ritmo frenetico impresso dalla quotidianità. Paradossalmente, oggi si tende guardare al passato, per esempio, alla pandemia di Spagnola di inizio del secolo scorso, per trovare risposte, per progettare il futuro, per individuare una speranza di uscita dalla crisi.

E, proprio pensando alle persone anziane (ultra 75enni) che vivono sole e che stanno particolarmente soffrendo per le distanze di sicurezza imposte dalla lotta alla pandemia, è stato realizzato un mini video – “Ci sarà una volta” – per guardare al futuro che arriva attraverso lo sguardo delle persone anziane. Un’idea di Giuseppe Carrieri per rilanciare, attraverso poesie, racconti e brevi video, un’opera di reinterpretazione del futuro a beneficio delle oltre 3 milioni di persone anziane che abitano in Italia, spesso nelle RSA, e dare loro la possibilità di guardare oltre le restrizioni del presente per riscoprire la propria capacità immaginativa e di programmazione.

Lo potete vedere su questo link del quotidiano “La Repubblica” del 23 dicembre 2020: https://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/ci-sara-una-volta-il-cartoon-e-una-favola-per-gli-anziani-soli-a-causa-del-covid/373445/374059?ref=RHLF-BS-I270681290-P2-S1-T1

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