Iconoclastia bizantina: l’avvio, le diverse fasi

Il fenomeno dell’iconoclastia – letteralmente distruzione delle immagini – ha assunto nel corso della storia molteplici forme, ha avuto motivazioni talvolta religiose e talvolta politiche, ha danneggiato permanentemente o cancellato del tutto opere, monumenti e siti archeologici, sgretolando le tracce di questa o quella specifica traccia dell’umano incedere sul pianeta.

Alcuni di questi episodi distruttivi godono generalmente di considerazione positiva, visti come accidente storico e conseguenza inevitabile (e tutto sommato trascurabile, nonostante i danni materiali) dello scatenarsi di una giusta forza – è il caso, ad esempio, delle statue della Galleria dei Re di Notre-Dame de Paris, decapitate dai rivoluzionari parigini nel nome della libertà, o del danneggiamento delle statue commemorative dei crimini – in passato ritenuti meriti – di questo o quel mercante di schiavi che nelle nostre città non merita più il posto urbanistico d’onore che una comunità drasticamente diversa dalla nostra – per valori e per diritti – gli aveva tributato.

In altri casi invece l’iconoclastia si configura come mera violenza tesa a cancellare la memoria monumentale, la forma visibile e secolare dell’identità culturale di un paese, di una regione, di un gruppo sociale, al solo fine di prevaricare e calpestare.

L’iconoclastia bizantina – anche nota come lotta per le immagini sacre – è un caso classico: una querelle religiosa che svela scenari politici di rivendicazioni autonomiste e nuove alleanze e che riflette le diverse consuetudini culturali (nel caso specifico figurative) e i divergenti interessi economici di due diverse comunità sociali.

A dare inizio all’iconoclastia bizantina fu Leone III Isaurico, l’imperatore che nel 726 fece distruggere il Cristo a mezzo busto che ornava la lunetta della Porta bronzea del palazzo imperiale a Costantinopoli; quattro anni dopo, nel 730, emanava l’editto col quale vietava la venerazione delle immagini sacre.

Il problema religioso, per Leone III e per suo figlio Costantino V – che saranno protagonisti della fase più aggressiva dell’iconoclastia – era rappresentato dal fatto che le immagini di Cristo, data la loro natura materiale e dunque inevitabilmente limitata, riducessero il Salvatore alla sola natura umana, trascurandone invece quella divina; l’unica icona religiosa la cui venerazione non comportava il macchiarsi del peccato di idolatria era la croce, immagine simbolica che, infatti, invade i catini absidali riformati nel segno dei dettami di quest’epoca, andando a sostituire Cristi adulti e bambini, angeli e Madonne ritenuti ora blasfemi. Coloro che invece avevano intenzione di difendere il diritto di venerare le immagini sacre sostenevano che Cristo stesso, incarnandosi, aveva accettato di essere ridotto almeno visivamente ad una imperfetta e limitata forma umana, ed era quell’aspetto umano che le icone sacre andavano a rappresentare, alludendo a quello divino – vero oggetto della venerazione dei fedeli – non rappresentabile, il quale comunque rimaneva l’unico destinatario della preghiera, alla quale le immagini dipinte, affrescate o scolpite fornivano soltanto un trampolino di lancio.

Il fatto che le immagini sacre fossero particolarmente venerate in Occidente non fu che una tra le motivazioni che spinsero alcuni dei sudditi occidentali dell’impero a dichiararsi contrari alla loro abolizione: papa Gregorio II disubbidì apertamente all’editto di Leone III e il suo successore Gregorio III si spinse fino alla scomunica degli iconoclasti; mentre Roma poté parzialmente permettersi il lusso di

mantenere questa sua posizione ostile, lo stesso non si poté dire di Ravenna, nella quale l’esarca, che inizialmente si unì alla protesta di Gregorio II, venne immediatamente minacciato dalla flotta imperiale appositamente inviata da Costantinopoli sulle coste ravennati per scoraggiarne l’insubordinazione. La frattura con l’impero, percepito come fin troppo lontano e già malvisto per via del continuo aumento delle tasse che imponeva ai suoi sudditi occidentali, appare ormai sempre più insanabile.

Alla fase iconoclasta inaugurata da Leone III seguì una pausa di circa trent’anni, promossa dall’imperatrice Irene e da suo figlio Costantino VI (nonché sollecitata dal papa Adriano I) e sancita dal secondo concilio di Nicea (787) che sancì il ritorno al culto delle icone.

Nell’815 l’iconoclastia tornò a fare la sua comparsa, ma in una forma meno distruttiva (e meno definitiva dal punto di vista del recupero dell’opera originaria) rispetto agli esordi: anziché strappare dal muro tutte le tessere di un mosaico, infatti, la tecnica utilizzata in questa fase, la scialbatura, prevedeva la copertura dell’icona – un mosaico, una tavola, un affresco – con intonaco bianco. L’ultimo imperatore iconoclasta – benché in questa modalità meno aggressiva – sarà Teofilo, che morirà nell’842; a prendere il suo posto sarà, in reggenza del figlio Michele III, sua moglie Teodora II, che immediatamente invertirà la politica religiosa dell’impero, tanto che già nel marzo dell’843 le icone potranno sfilare acclamate nel loro rientro trionfale a Santa Sofia.

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