“House of Gucci”: cosa succede quando i registi si ispirano troppo a “Game of Thrones”

Non dite che non avete avuto per due ore di fila l’eco della sigla della nota serie HBO quando volevate andare al cinema e avete letto il titolo del film di Ridley Scott sullo schermo per stampare i biglietti alla cassa automatica. Non vi crederemo mai.

Pensando di trovare una Lady Gaga con i capelli bianchi spalmata su una pelle di drago, vi siete seduti in sala, attendendo pazientemente di cambiare la prima impressione mentre nella vostra testa era iniziato il quarto replay di “dandan, daradandan, daradandan…”. E poi, sipario. Lusso, tanto lusso. Due ragazzi: uno impacciato, timido, inconsapevole delle proprie potenzialità e dei mali di un mondo crudele disinteressato a conservare la purezza di un cuore nobile di sangue e di intenzioni. L’altra per niente impacciata, per nulla timida, del tutto consapevole delle proprie potenzialità e dei mali di un mondo crudele disinteressato a conservare la purezza di un cuore nobile di sangue e di intenzioni.

Per il resto della durata del film, giochi di potere, parenti di cui accaparrarsi la fiducia e le ricchezze prima di pugnalarli alle spalle, cambi di proprietà, eserciti di avvocati e commercialisti, estranei che si impossessano di un regno di famiglia, figli cresciuti senza padre, il tutto condito da una buona dose sesso coniugale ed extra-coniugale. Morte, sangue, armi, verdetto, esilio. Si chiude il sipario.

Che strano, eppure House of the Dragon non doveva essere il prequel, e non il sequel di Game of Thrones? Bah.

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