CECI N’EST PAS… UN MICRO! Il sogno degli Idoli moderni

«La pittura trasforma lo spazio in tempo, la musica il tempo in spazio» affermava lo scrittore austriaco Hugo von Hofmannsthal. Opposti e complementari, i due linguaggi si presentano di fatto strettamente connessi nell’esperienza di numerosi artisti contemporanei, come testimoniano tutti quei musicisti che, nel tempo libero, si dedicano alle arti visive. Alcuni di essi lo fanno per svago, altri coltivano tale interesse con costanza e impegno, arrivando persino, talvolta, a considerarlo il canale espressivo d’elezione, quello attraverso il quale meglio comunicano e riconoscono se stessi. Non sempre, però, talento e passione vanno di pari passo: lo sanno bene i nostri Francesco De Gregori, Max Gazzè, Francesco Renga e Laura Pausini, che continuano a dipingere quasi esclusivamente per se stessi, consapevoli di meritare più di essere ascoltati che “osservati”, e persino Franco Battiato, che pur esponendo, con lo pseudonimo di Süphan Barzani, i suoi filosofici quadri, densi di spiritualità orientale, preferisce definirsi “un uomo che dipinge” piuttosto che un pittore. Non è così, però, per alcune rockstar internazionali, pronte a sacrificare la melodia e il ritmo per veder trionfare colori e forme. Gli esempi da citare sarebbero moltissimi, ma ci limiteremo qui a presentare brevemente alcuni dei casi più interessanti.

Il primo della lista è Bob Dylan (Duluth, 1941), un cantautore eclettico, amante dell’arte in tutte le sue forme. Dai testi delle sue canzoni traspare infatti una profonda cultura letteraria, con una spiccata predilezione per William Blake, Arthur Rimbaud, gli autori della Beat generation e Dylan Thomas, dal quale parrebbe aver mutuato il proprio nome d’arte. Divenuto celebre grazie ad impegnate canzoni di protesta, nel suo oltre mezzo secolo di carriera, ha sperimentato tutti i generi musicali, ma anche linguaggi assai differenti, come la poesia, la prosa e il cinema. In seguito ad un incidente motociclistico che lo ha costretto ad alcuni mesi di riposo assoluto, nel 1966, si è avvicinato alla pittura, un hobby che, col tempo, si è consolidato in una vera e propria passione. Disegna durante le tournée, nelle pause fra un concerto e l’altro, durante gli spostamenti; dipinge a casa, mentre compone brani musicali, per «rilassare una mente che non si ferma mai». Eppure, per quanto il disegno e la pittura occupino le zone d’ombra, i brevi ma fluidi intervalli concessigli dagli impegni professionali, Dylan afferma di sentirsi più a suo agio di fronte ad una tela che ad uno spartito. Rimasta, per circa quarant’anni, poco più di un passatempo, la sua attività pittorica è finalmente venuta allo scoperto nel 2007, con la mostra The Drawn Blank Series, allestita presso il Kunstmuseum di Chemnitz (Germania). Da allora, le esposizioni dedicate ai suoi quadri si sono moltiplicate, raggiungendo gli spazi di alcune delle più prestigiose gallerie del mondo, tra cui la Gagosian Gallery di New York (2012-2013), il Palazzo Reale di Milano (2013) e la National Portrait Gallery di Londra (2013). Purtroppo, però, non sempre la critica si è espressa a favore delle sue opere, come a rimarcare il fatto che, per lasciare un segno indelebile nella storia dell’arte, non conta essere un’icona della musica, né un premio Nobel per la letteratura (2016), non bastano la cultura e l’ingegno, né i riferimenti ad intramontabili pittori quali Norman Raeben, Marc Chagall e Paul Gauguin.

Al contrario, John Lennon (Liverpool, 1940 – New York, 1980), partì dalle arti visive per poi occuparsi prevalentemente di musica. Infatti, completati gli studi presso il Liverpool College of Art, accantonò le tele per far spazio agli spartiti. Fu, nel 1966, l’incontro con Yoko Ono (proprio in occasione di una mostra di dipinti di lei) a ridestare il demone assopito della pittura. La componente artistica subito conquistò e fino alla fine mantenne un ruolo centrale all’interno della loro relazione,

come dimostra Bag One, la serie di 14 litografie erotiche, che Lennon offrì a Yoko come dono di nozze (1969) – e che Scotland Yard sequestrò, nel corso della prima esposizione (London Arts Gallery, 1970), ritenendola troppo esplicita. Consapevole del fatto che «alcuni giorni l’ispirazione arriva per la musica, altri spinge per essere resa in dipinti», anche l’ex collega Paul McCartney (Liverpool, 1942) alterna, da oltre trent’anni, la pittura alla musica, dando voce a quella parte di sé che altrimenti resterebbe silenziosamente nell’ombra. Il tono dei suoi dipinti risulta più ironico e leggero di quello delle sue canzoni, ma non per questo meno genuino e impegnato. Ne sono la prova la costante ricerca di un’evoluzione stilistica e l’intersezione fra spunti biografici e riferimenti culturali (come i ritratti di altri artisti, quali Andy Warhol, René Magritte, David Bowie).

Per coloro che, ai Beatles, preferissero i Rolling Stones, farà certo piacere scoprire nel chitarrista e bassista Ron Wood (Londra, 1947) un vero e proprio “pittore di corte”. Wood utilizza infatti la pittura per celebrare, in tutta la sua gloria (che in sé comprende una buona dose di miseria), la vita pubblica e privata delle rockstar e, in particolare, dei colleghi Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones. I suoi punti di riferimento sono alcuni dei pilastri dell’arte europea dell’Otto-Novecento, come Edgar Degas, Auguste Rodin, Vincent van Gogh, Henri Matisse, Pablo Picasso e Egon Schiele, pittori che hanno trovato una via di incontro fra transitorio ed eterno, modernità e tradizione, proprio come lui ha cercato di fare, a suo modo, con una serie di dipinti dedicati al tema della danza. Seguendo per alcuni mesi le prove dei ballerini del Royal Ballet di Covent Garden, Wood ne ha studiato a fondo le espressioni, i gesti e le pose, al fine di illustrare il nesso fra vita e arte nella dura e inflessibile routine di coloro che dell’arte hanno fatto una scelta di vita. Tra i suoi più convinti sostenitori, oltre agli altri membri della band, c’è Damien Hirst, che, al termine del periodo di riabilitazione di Ron dall’alcolismo, l’ha incoraggiato a coltivare tale passione regalandogli una gran quantità di materiale per dipingere.

Joni Mitchell (Fort Macleod, 1943), si è formata presso la Alberta College of Art di Calgary e ha sempre considerato la musica un hobby, tanto da dichiararsi «prima di tutto una pittrice, poi una musicista». Tuttavia, soltanto la musica le ha permesso di esprimere se stessa in maniera originale e di ottenere il meritato successo. La sua pittura, invece, tenacemente ancorata agli stili dei suoi modelli, non ha mai spiccato il volo. Dipingendo ogni volta “alla maniera” di uno diverso dei grandi del passato, nel 1993, è arrivata ad autoritrarsi come Van Gogh, con un orecchio bendato, tradendo così la sua vocazione a “cantare la tristezza e dipingere la gioia”. Più coerente è il breve ma intenso percorso artistico di Janis Joplin (Port Arthur, 1943 – Los Angeles, 1970), che, tanto nelle canzoni quanto nei disegni, racconta di sé e delle sue esperienze di vita. Si tratta in gran parte di autoritratti, vignette infantili o dipinti a olio dai colori tenui e terrosi, eseguiti con un tratto incerto, fra il timido e l’aggressivo, che esprimono la continua lotta fra libido e destrudo che alimentava e insieme consumava l’ardente fiamma della sua sfuggente personalità.

Decisamente più a fuoco è la figura David Bowie (Londra, 1947 – New York, 2016), artista carismatico e polivalente, che si è occupato di musica, cinema e arte, fondendo i vari linguaggi nella più perfetta opera d’arte che è stata la sua vita. Appassionato di pittura, si sentiva più un pittore che un cantante e dai pittori prendeva spunto per scrivere canzoni – si pensi alla citazione di Georges Braque in Unwashed and somewhat slightly dazed (Space Oddity, 1969), al riferimento alla Golden Dawn in Quicksand e all’omaggio a Andy Warhol in un brano che ne porta il nome (Hunky Dory, 1971) –, ma anche per trasformare il proprio look e ideare le scenografie per i concerti, come quella, liberamente ispirata a Georges Grosz, per il tour Diamond Dogs del 1974. L’arte era davvero l’unica cosa che avrebbe mai voluto possedere, disse una volta, e di arte, infatti, possedeva una ricca collezione. Per sentirsi “a casa”, aveva raccolto una grande quantità di pittura inglese (i

Preraffaelliti, David Bomberg, Frank Auerbach, Henry Moore, Graham Sutherland, Damien Hirst); per viaggiare e assecondare il proprio temperamento cosmopolita, aveva selezionato numerose tele di Tintoretto, Rubens, Espressionisti tedeschi, Francis Picabia, Marcel Duchamp, Surrealisti, Jean Michel Basquiat e persino artisti del Gugging (quadri terapeutici dipinti da pazienti psichiatrici). Così, circondato di capolavori, a partire dagli anni ’70, iniziò a dipingere lui stesso, con pennellate aggressive e materiche, di matrice espressionista, o con tratti semplici e stilizzati, assimilabili all’Art Brut di Jean Dubuffet o al graffitismo di Basquiat (in cui ravvisava un forte legame con la musica rock). Così diverse nella forma, in sostanza, musica e pittura esprimevano per Bowie lo stesso desiderio di libertà.

Il rapporto fra i due linguaggi non fu altrettanto armonico per Syd Barrett (Cambridge, 1946 – 2006), artista altrettanto brillante e magnetico, fondatore e leader dei Pink Floyd dal 1965 al 1968, anno in cui, a causa di un definitivo crollo psicologico (esito del letale mix fra schizofrenia e abuso di sostanze psicotrope), lasciò il gruppo e, dopo una breve carriera solista, si ritirò dalle scene. Considerato da molti un pittore con l’hobby per la musica (si era formato presso il Camberwell College of Arts), Syd cercò di mettere d’accordo microfono e pennello e, insieme, i due poli opposti della sua personalità, scrivendo brani dalla forte potenza immaginativa e realizzando copertine per gli album della band. Lo stesso nome Pink Floyd, scaturito dall’unione dei nomi dei bluesmen Pink Anderson e Floyd Council, secondo alcuni, sarebbe stato scelto dal gruppo guardando Syd dipingere una tela interamente di rosa, «un colore che riporta all’infanzia dello zucchero filato, all’amico Piglet di Winnie the Pooh, ma è anche il colore che viene fuori quando il sangue macchia la neve, fluido, denso, carico di ambiguità». Ambiguo era infatti il rapporto che egli aveva con la musica, o, meglio, con la notorietà che essa gli aveva procurato, incastrandolo nel meccanismo, molto produttivo e poco creativo, del mercato discografico, dei tour, delle interviste e delle apparizioni televisive. Per Barrett l’espressione artistica era, prima e sopra di tutto, libertà di trasformare, rimescolare, inventare stili, tecniche, temi (insomma, l’identità): qualcosa che soltanto la pittura poteva offrirgli, permettendogli di passare dall’astratto al figurativo, dalla china e penna su carta all’olio su tela, dal mosaico al collage e all’illustrazione. Il colore era la vera voce di Syd.

Questo lungo viaggio attraverso due mondi paralleli potrebbe continuare ancora per un bel po’ – Leoard Cohen, Don Van Vliet (“scoperto” e incoraggiato a dedicarsi alla pittura da Julian Schnabel), la “Starchild” dei Kiss Paul Stanley, ecc. –, ma possiamo fermarci qui, concludendo con un breve cenno al percorso battuto da alcuni artisti più giovani. I più curiosi sono Marilyn Manson (Canton, 1969), che, dal 1999, affianca alla ben nota e turbolenta attività di cantante quella più placida di acquarellista, ritraendo se stesso e diversi altri personaggi – lo scrittore noir Edgar Allan Poe, la modella e diva del burlesque Dita Von Teese (sua ex moglie) o l’attrice Rose McGowan (anche lei sua ex) –; il cantautore Joseph Arthur (Akron, 1971), che, sulla scia delle diverse esperienze di improvvisazione e compenetrazione tra più linguaggi tipiche del secondo Novecento, dipinge sul palco, durante i concerti; e Pete Doherty (Hexham, 1979), il cantante dei Babyshambles, il quale, per la copertina di Grace/Wasteland, suo primo album da solista, ha realizzato On Blood: A Portrait of the Artist, una collezione di quadri dipinti secondo una tecnica da lui definita “arterial splatter” (“schizzi di arteria”), utilizzando, cioè, una miscela di colore e sangue d’artista.

In definitiva, ciascuno a suo modo non fa che sognare che, prima o poi, il microfono si trasformi in un pennello. Fra personaggi così differenti, chi avrebbe mai sospettato un’affinità tanto profonda?

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