Artemisia, dal dolore alla gloria

La violenza sulle donne è questione vecchia: dal Ratto delle Sabine, o ancor prima, gli uomini hanno preso con la forza ciò che non riuscivano in altri modi. Fortunatamente, però, non tutte le donne soccombono, anzi, alcune da eventi luttuosi di sopraffazione, acquistano coraggio della denuncia e energia della indipendenza.

Artemisia Lomi Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, 1653), primogenita del pittore toscano Orazio Gentileschi, esponente di primo piano del caravaggismo romano, è stata una straordinaria artista e donna di grande temperamento, antesignana dell’affermazione del talento femminile, prima donna a entrare all’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze. Eppure, fino a pochi anni fa ignota alla storia dell’arte e al grande pubblico. Agli studi femministi di genere si deve il merito di aver riscoperto dalle pagine della Storia figure occultate, e svelarne il grande ingegno.

Di Artemisia, fu il padre stesso a pregare il pittore Agostino Tassi di iniziarla allo studio della prospettiva. Come si sa, la pittrice, quindicenne, come sostenne il padre al processo, subì violenza dal Tassi che, non poté “rimediare” con un matrimonio riparatore, essendo già sposato.

Orazio decise quindi di denunciarlo, questione tra maschi, e il processo colpì per la crudezza del resoconto di Artemisia e per i metodi inquisitori del tribunale dove fu la vittima, sospetta di spergiuro, a subire torture crudeli che le avrebbero potuto inibire l’esercizio dell’attività pittorica se, ancora una volta, con caparbietà, la ragazza non si fosse sottoposta a dolorose cure per riacquistare la sensibilità degli arti. Lo stupratore fu condannato all’esilio per cinque anni da Roma, ma il verdetto, presto modificato grazie all’appoggio di potenti mecenati, fu ignorato da Agostino.

Lo scandalo segnò profondamente il destino di Artemisia. Il giorno successivo alla sentenza, ancora come questione tra maschi, Orazio le combinò un matrimonio riparatore con un suo debitore, il modesto pittore fiorentino, di nove anni più anziano, Pierantonio di Vincenzo Stiattesi, col quale la pittrice si trasferì a Firenze, dove ebbe quattro figli, dato che a Roma ormai per lo scandalo aveva perso ogni favore.

Questo trasferimento, dapprima accolto con sgomento e afflizione, fu il trampolino di lancio e segnò la definitiva maturazione dell’artista, nonchè recise il legame con un padre considerato non idoneo a tutelarla, non solo professionalmente, ma anche moralmente, tant’è che nel periodo fiorentino Artemisia adottò il cognome Lomi, dello zio che l’accolse e introdusse nell’ambiente di corte.

Artemisia cambiò più volte città, cambiò case, fu agente di se stessa, donna indipendente e impegnata a perseguire la propria affermazione artistica contro i molteplici pregiudizi incontrati nella sua vita. Dotata di una volontà che le consentì di superare le violenze familiari, le angherie subite e le difficoltà economiche, visse la sua vita in assoluta libertà, tanto che mantenne una relazione col suo amante Francesco Maria Maringhi, nobile raffinato, quanto tenero e fedele compagno di una vita, da cui ebbe anche una figlia.

Artemisia, animo irrequieto e passionale, seppe imporsi all’attenzione dei più colti ambienti culturali del tempo e dei grandi d’Europa, raggiungendo il successo professionale, raro per gli artisti, incredibile per una donna. Fu amica e frequentò Galileo e Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del più famoso Michelangelo, godette della protezione della famiglia Medici.

Per sfuggire all’assillo dei debiti tornò a Roma, dove visse da donna ormai indipendente, in grado di prender casa e di crescere le figlie. Fu a Venezia e a Napoli (su invito del vicerè) e nel 1638 raggiunse il padre malato a Londra, dove Orazio era diventato pittore di corte. Lì continuò a lavorare anche dopo la morte del padre, ma, alle prime avvisaglie della guerra civile, Artemisia fece ritorno a Napoli, dove morì nel 1653. Fu sepolta nella Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini sotto una lapide che recitava Heic Artemisia. A seguito della ricollocazione dell’edificio, la lapide, così come il sepolcro dell’artista, risultano perduti.

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