Árpád Weisz

 

Il boato della curva mi rimbomba ancora nelle orecchie… ARPAD, ARPAD… giungeva come una eco frammista a parole che neppure comprendevo. Poi, col tempo, quell’idioma divenne familiare e quella gente sarebbe divenuta compatriota…

Giunsi da Solt curioso di questa terra lontana e così soleggiata. Non ho mai indossato un cappotto dal mio arrivo in Italia ed adoravo mangiare enormi piatti di pasta al ragù! Ero stato un discreto giocatore, avevo anche indossato con onore la maglia della mia Nazionale e rincorrendo un pallone ero rotolato per mezza Europa, ma è in Italia che ho messo radici ed ho messo su famiglia… Onorare la maglia e rispettare l’avversario erano questi gli insegnamenti che impartivo ai miei ragazzi. E non transigevo sull’impegno. Il pallone non era solo un gioco, era dedizione e passione. Eh, sì! Se non ci metti il cuore non puoi giocare d’animo! Fu così che nel 1930 alzammo la coppa e vincemmo il campionato italiano, per la prima volta disputato a girone unico. Avevo 34 anni e mi sentivo un eroe… “Il più giovane allenatore a laurearsi campione d’Italia” dissero, e questo record è tuttora imbattuto. Tra i giovani dell’Ambrosiana, Bepi mi colpì particolarmente… a pensare che dopo tanti anni gli avrebbero intitolato lo Stadio meneghino! Grandi giocatori ne esistevano al mondo, ma le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling e le fughe solitarie verso il goal mi lasciavano incantato. Rimasi sempre al Nord ad allenare e nel 1935 approdai a Bologna. Coi rossoblu conquistammo ben due scudetti consecutivi e l’anno successivo il Torneo dell’Esposizione Universale a Parigi. La gente mi acclamava, passeggiare per il centro era una continua stretta di mani, pacche sulle spalle e sorrisi. Erano tutti amici ed io mi sentivo a casa. Cosa accadde nel giro di pochi mesi, ancora non mi è dato di capirlo. Una legge non può spezzare legami di fiducia e rispetto. Una legge non può spazzare via affetti e riconoscenza. Una legge non può stabilire che un uomo perda il suo stesso status di essere vivente. Così dovemmo affrettarci a lasciare il Paese, dopo un licenziamento frettoloso, a occhi bassi e parole sbiascicate. Elena ed i nostri figli non ne volevano sapere e dovetti promettergli migliore sistemazione a Parigi. Nessuno di noi avrebbe mai pensato. Nessuno di noi aveva davvero capito. L’esodo cominciò, temporeggiammo in Olanda, pensandoci al sicuro, ma è qui che avvenne la tragedia. I folli seguaci dello sterminio ci arrestarono con l’accusa di non appartenere alla razza pura. Il viaggio per Auschwitz fu lungo e penoso, accalcati in quei carri bestiame ove non era neppure possibile sedersi o sdraiarsi per avere un po’ di sollievo, ove bimbi ed anziani respiravano la stessa aria rarefatta, impregnata, col passare delle ore, di tutti gli umori del corpo umano, visto che non fu concesso neppure il lusso della ritirata. Giungemmo di notte sfiniti. Stridente la scritta argentea che si stagliava sul cielo plumbeo “Arbeit machts frei”. Il Lavoro rende liberi. La parola libertà non viveva più qui, costretta dal filo spinato elettrificato, dalle fauci spalancate dei dobermann addestrati, sotto mira delle mitragliette e dalle luci delle altane. Signore dove sei? Masticai l’imprecazione guardandomi attorno. Il suono festoso dell’orchestrina d’accoglienza cozzava con l’odore di quel fumo denso che usciva dalle fornaci e che si posava come piombo dentro nei polmoni. Ci dirottarono subito per il campo più grande di Birkenau. Eravamo oltre 100.000 ed i convogli arrivavano a ritmo continuo. Siamo stati selezionati per una doccia. Finalmente. Forse ci riconoscono il prestigio delle nostre posizioni. Forse non tutto è perduto. Mi metteranno forse di supporto agli operai o, se prenderanno in considerazione il mio passato, magari ad allenare la squadra dei militari. Chissà se troverò qualche giovane promessa… Shemà’ Israel A. Eloqenu A. Echad. Veaavtà et A. Eloqekha bekol levavekhà uvkol nafshekhà uvkol meodekha.Veaiù ha-devarim ha-elle asher Anochi metzavvekhà ha-yom al-levavekha”

 

Sabrina Cicin

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