Fase 2 identica alla Fase 1? Sarebbe stato difficile fare diversamente

Con il 4 maggio ormai vicino, il governo si prepara ufficialmente alla Fase 2. La consueta conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha, inizialmente, confuso più che chiarito le idee sulle tappe che un’Italia a pezzi avrebbe dovuto intraprendere a partire dal mese prossimo.

I chiarimenti sono poi arrivati, con il testo del dpcm e le circolari da Palazzo Chigi; eppure, passata la fase dell’unità, sembra che le misure non appaiano soddisfacenti a gran parte degli italiani – che ora, da protagonisti di un’emergenza senza precedenti, iniziano a sentirsi ostaggio di una lenta burocrazia. Sembra cosa finita, per alcuni, anche quell’estremo rispetto nutrito nei confronti dei medici eroi, mentre c’è chi dalle piazze virtuali trema contro quella che definisce una «dittatura dei comitati scientifici». Questo, in particolare, alla luce della pubblicazione del documento tecnico che raccomanda molta, molta cautela nella fase di riapertura per evitare di giungere a fine anno con un numero di ricoveri impossibile da gestire.

Eppure proprio la lettura di quel documento dovrebbe suggerire al raziocinio la risposta corretta: questa Fase 2 sarà anche molto simile, come si sente dire, alla Fase 1. Ma la realtà è che sarebbe stato impossibile, e folle, fare altrimenti. Il documento della task force, sul quale si è basata la decisione governativa, dopo aver proceduto ad analizzare i dati disponibili sui contagi, sulla contagiosità e sulla suscettibilità per fascia di età e settore di studio o lavoro, indica una serie molto corposa di possibili scenari di riapertura.

Tali scenari sono corredati da una voce molto specifica che prevede il numero di ricoveri ospedalieri al prossimo 31 dicembre. La sola riapertura delle scuole, ad esempio, ne provocherebbe circa 50mila. La riapertura di tutti i settori produttivi e istruttivi porterebbe i ricoveri ospedalieri alla cifra assurda di 500mila e più. Il che, volendo considerare l’attuale proporzione tra contagiati e ricoverati, si tradurrebbe potenzialmente in un numero di nuovi contagi oscillante tra i 3 e i 5 milioni di italiani, a seconda di quale variabile si voglia considerare.

Insomma, le lamentele sono comprensibili, specialmente da parte di chi si trova a fronteggiare una crisi economica inaspettata e gravissima, ma sarebbe davvero stato difficile operare verso una riapertura più serrata. Le altre possibilità, quelle che indicano una riapertura graduale, prevederebbero infatti una cifra di ricoverati a fine anno molto più magnanima – relativamente parlando – nell’ordine delle centinaia.

Tutto questo, si sottolinea, considerando il rispetto da parte degli italiani delle norme sul distanziamento sociale e sull’igiene, in un momento in cui il raziocinio e la responsabilità personale sono importanti come non mai.

Qualcosa in più, in questo decreto, si sarebbe voluto vedere non tanto sulle riaperture ma per quanto concerne gli screening: il Paese necessita assolutamente di effettuare test su una fetta consistente della popolazione, preferibilmente insistendo nelle aree che si rivelano più colpite e, magari, subordinando la riapertura delle attività al conseguimento di un tampone. Un maggiore coinvolgimento dello screening è essenziale, seppur ancora non pervenuto nelle disposizioni governative, per avere un quadro più completo della situazione: in tutta Italia, e non solo nelle zone rosse.

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