Il primo re: finalmente una storia forte Finalmente.

Il cinema italiano si agita da tempo alla ricerca di storie autentiche, forti, che smuovano. Ecco, Matteo Rovere in L’ultimo re l’ha trovata. É riuscito in un’operazione per molti aspetti coraggiosissima. Innanzitutto per l’ambientazione: un film in costume, storico, anzi, preistorico. Infatti la leggenda di Romolo e Remo viene reinterpretata e raccontata senza imbellettamenti, con crudo realismo, calando lo spettatore in un contesto ancestrale, lontano nel tempo, seppure non nello spazio. Gli ulivi sulla riva del Tevere assistono a vicende di una violenza ferina e primitiva, in un tempo prima della civiltà. Ad aggiungere azzardo all’intera idea, il linguaggio scelto: un proto-latino ricostruito da esperti semiologi, che invece di respingere lo spettatore, lo immerge totalmente nel mondo arcaico, con i suoi suoni duri, ruvidi, misteriosi. Da ultimo, elemento non trascurabile, l’investimento economico, inaudito in questi tempi di crisi del cinema: circa 8 milioni di euro. Un fulmine a ciel sereno.

Insomma, senza voler esagerare, sembra intravedersi una rinascita, nel senso di una ripresa di confidenza, del cinema italiano. Una rinascita che osa ciò che ancora non è stato osato, la rielaborazione originale di generi dimenticati. Si tratta infatti di un cinema d’autore che al contempo rielabora generi classici, evitando intellettualismi elitari e concettuosi. Come Mainetti in Lo chiamavano Jeeg Robot ha ambientato a Roma un film di supereroi, così quest’anno Rovere racconta una storia classica di azione e avventura, ispirandosi al cinema internazionale (a registi quali Malick, Gibson, e Iñárritu) e reinventando le stesse radici della città eterna. Nel caso di Il primo re, la storia è originale proprio in quanto tradizionale, antica e dunque dimenticata. Tanto dimenticata e distante dalla contemporaneità da risaltare potente proprio per la sua dissonanza/assonanza con il contemporaneo: la teologia primordiale delle divinità del fuoco e della terra, il legame delle culture primitive alla natura, la loro concezione del destino cosmico e della libertà umana, il rapporto stretto fra violenza, sacro e politica, sono tutti elementi che al contempo respingono e attraggono, creando un magnetismo peculiare, una tensione fra esotismo e immedesimazione. Al di là delle scene d’azione mozzafiato, che rendono l’opera un perfetto prodotto di intrattenimenti, lo spettatore è catapultato in un mondo distante ma al contempo vicinissimo alle sue pulsioni essenziali e domande fondamentali: come sopravvivere? Uccidere o salvare? Che significa essere fratelli? Siamo liberi o il destino è già scritto? Che valore ha l’azione dell’uomo, la sua vicenda, la sua sofferenza?

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