«MAMA MIA, LET ME GO!» Delitti e castighi di ogni giorno

Lo scorso 29 novembre 2018, in tutte le sale cinematografiche italiane, ha fatto il suo attesissimo debutto il film, diretto da Bryan Singer, Bohemian Rhapsody. La pellicola, proiettata in anteprima mondiale il 23 ottobre 2018 a Londra, alla Wembley Arena (di fronte al Wembley Stadium dove si tenne il celebre concerto Live Aid, evento che funge da cornice all’intero film), ricostruisce i primi quindici anni della storia dei Queen (dalla fondazione del gruppo, nel 1970, al Live Aid del 1985), focalizzandosi, in particolare, sull’evoluzione personale e artistica di Freddie Mercury, il frontman della leggendaria rockband britannica.

Tutto ha inizio a Londra, nel 1970. Farrokh Bulsara (Rami Malek) è un giovane indiano che si occupa della gestione dei bagagli presso l’Aeroporto di Londra-Heatrow e che, per recidere di netto le proprie radici parsi e abbracciare l’identità culturale d’adozione, si fa chiamare “Freddie” e dice di essere nato a Londra, anziché a Zanzibar. Freddie ama la musica ed è consapevole di possedere un rarissimo talento vocale, così, una sera, al termine di un concerto degli Smile, imbattutosi nel chitarrista, Brian May (Gwilym Lee), e nel batterista, Roger Taylor (Ben Hardy), si propone quale nuova voce solista. Con l’aggiunta di un degno bassista, John Deacon (Joseph Mazzello), la band prende il nome di Queen e incomincia a farsi conoscere e apprezzare in tutta la Gran Bretagna, finché giunge il momento di pubblicare il primo album (Queen, 1973). Il successo, sancito ufficialmente dal contratto con l’etichetta discografica EMI, incoraggia i Queen a seguire liberamente le coraggiose ma geniali intuizioni di ciascun componente, soprattutto quelle di Freddie. È a questo punto che entra in scena Bohemian Rhapsody, brano di lancio del quarto album (A Night at the Opera, 1975), filo conduttore del film, nonché metafora della vicenda biografica e della sfuggente personalità di Freddie Mercury. Vale la pena, dunque, cercare di spiegare cosa questa canzone rappresenti per il suo autore e in che modo si leghi all’omonimo film.

In ambito musicale, la “rapsodia” è un componimento dalla struttura libera e multiforme, non convenzionale (“rapsodo” era, nell’antica Grecia, colui che narrava in pubblico storie epiche, alternando parti recitate e parti cantate, mescolando metri e stili differenti). Bohemian Rhapsody si presenta come un rivoluzionario accorpamento di cinque parti differenti: un’introduzione corale eseguita a cappella, una ballata che sfuma in un assolo di chitarra, una sezione operistica, un esplosivo segmento hard rock e un finale in cui i motivi della ballata vengono ripresi e definitivamente congedati. La stessa composizione del pezzo seguì una logica che può definirsi “rapsodica”. Freddie Mercury scrisse gran parte del testo, nella sua casa di Kensington (quartiere occidentale di Londra), nei primi mesi del 1975, appuntando parole e criptici frammenti di versi, frutto di lampi di ispirazione improvvisi e fugaci («easy come, easy go»), ai margini di un elenco telefonico e su piccoli fogli sparsi, per poi fondere il tutto in un unico delirante flusso mono-dialogico. Per registrare quei 5 minuti e 56 secondi di canzone, ci vollero sei settimane di lavoro (in sei studi diversi) e un totale di 180 nastri per le sole sovraincisioni delle parti vocali, registrate ciascuna indipendentemente dalle altre, per poi essere alla fine assemblate nello straordinario esito ormai celeberrimo.

Non meno complesso è il tessuto arlecchinesco che costituisce il (presunto) significato del brano. Il testo sviluppa il monologo interiore di un uomo, che, dopo aver commesso un omicidio e venduto la propria anima al diavolo, invoca Dio per chiedere pietà e salvezza. In un documentario trasmesso dalla BBC, Roger Taylor affermava che la canzone “si spiega da sé”, sottolineando il fatto che l’aria operistica include diversi “nonsense” volutamente indecifrabili. Tuttavia, fra le numerosissime interpretazioni proposte fino ad oggi, la più attendibile sembrerebbe quella data dalla musicologa Sheila Whiteley, supportata anche da Lesley-Ann Jones, autrice di una importante biografia del cantante, da Tim Rice, che con lui collaborò all’album di duetti con Montserrat Caballé (Barcelona, 1988), e persino dall’ultimo compagno di Freddie, Jim Hutton. Secondo la Whiteley, il brano andrebbe inteso come una cifrata dichiarazione di omosessualità da parte dell’autore.

Vittima e carnefice del delitto sarebbero, rispettivamente, la maschera indossata da Freddie in pubblico, sfrontata e vincente, e il suo vero volto, fragile e difettoso. La presa di coscienza dello scollamento fra le due parti si andava, in quegli anni, configurando dentro di lui come una catastrofica frana che trascinava nell’abisso ciò che fino a quel momento aveva costruito, un rito di iniziazione che avrebbe imposto un cruento sacrificio. Assecondando la propria natura, infatti, Freddie avrebbe distrutto i ponti non soltanto col passato, rappresentato dai genitori (delle radici parsi aveva del resto già tentato di liberarsi cambiando nome all’anagrafe), ma anche e soprattutto col futuro da lungo tempo progettato assieme a Mary Austin. Mercury sentiva sempre più forte il bisogno di prendere posizione rispetto a quella frattura. In questo senso, era giunto il momento che Scaramuccia (maschera del buffone vanaglorioso, presa in prestito dalla commedia dell’arte) ballasse il fandango. Il riferimento alla movimentata danza folcloristica spagnola, il cui nome è sinonimo di “trambusto, tumulto” o di “esibizione virtuosistica”, indica infatti la presenza di un bivio nella vita dell’artista: dar prova di grande coraggio e maestria nel continuare a fingersi un altro o rinunciare alla farsa, assassinare la falsa immagine, sperando così di pareggiare i conti. Ma, commesso l’omicidio, i fulmini e le saette del rimorso lo perseguitano e, perciò, non gli resta che cercare rifugio in Dio. Quello che egli chiama in suo aiuto, però, non è Ahura Mazda, il Dio dei suoi genitori. Come prima cosa, si appella infatti alla misericordia di Cristo, ma lo fa in maniera impropria, stentata, implorando «Galileo Figaro Magnifico» anziché “Galilaeus Figurus Magnificus” (“Cristo è magnanimo”), come una scimmiottatura o uno sbiadito ricordo di infanzia che all’improvviso riemerge, falsificato dal tempo e dalle più varie interferenze e, persino, subordinato ad ulteriori finalità espressive (come quella di rendere omaggio, con «Galileo», a Brian May, dottore di ricerca in astrofisica, e a Galileo Galilei, paladino della libertà di pensiero rispetto ai dogmi religiosi e scopritore del pianeta Mercurio; e, con «Figaro», al Il Barbiere di Siviglia e al mondo dell’opera). Dopo essersi rivolto a Cristo, l’omicida esclama «Bismillah!» (“in nome di Allah!”), l’invocazione che apre ogni sura del Corano, per chiedere pietà, ma nessuno, né in cielo né in terra, ha intenzione di “lasciarlo andare” per la sua strada. Il protagonista muore dunque per la seconda volta.

Un ultimo spunto di riflessione riguarda l’uso figurato del termine “scaramuccia” come sinonimo di “breve combattimento di scarsa importanza”. Bohemian Rhapsody costituisce, in

effetti, l’espressione di un conflitto privato che si svolge quotidianamente nella coscienza di qualcuno che potrebbe essere chiunque. Questo vale per la canzone, ma anche per l’omonimo film, tutto costruito su episodi scelti e, in qualche caso, persino appositamente alterati (come l’annuncio della propria malattia da parte del cantante, avvenuto, nella realtà, nel 1988, ma anticipato, nella finzione cinematografica, a pochi giorni prima del Live Aid, nel 1985), al fine di offrire un’idea del complesso labirinto di conflitti interiori che la rockstar, al pari di ogni altro essere umano, ha dovuto attraversare nella sua breve ma intensa esistenza. A tinte tenui e sfumate, si susseguono i diversi quadri interiori che ci mostrano Freddie in continua lotta: con la sua identità culturale e sessuale; con l’amore, per tutta la vita corrisposto e mai realizzato, per Mary Austin (Lucy Boynton); con la band, soprattutto a causa dell’amante e manager personale Paul Prenter (Allen Leech); con la solitudine, dalla quale cercava una disperata quanto temporanea via di fuga per mezzo di alcool, droghe e festini; con la malattia, affrontata, assieme al fedele compagno Jim Hutton (Aaron McCusker), con la forte determinazione a far proseguire lo spettacolo fino alla fine. Così presentato, il percorso dell’immortale Freddie Mercury non è poi troppo dissimile da quello di ciascuno di noi, comuni mortali. È forse per questo che Rami Malek, proprio per il suo ruolo in Bohemian Rhapsody, candidato al Golden Globe come migliore attore in un film drammatico, scrupolosissimo nell’apprendere, dopo essersi fatto impiantare una protesi all’arcata dentale superiore, lo slang, la mimica e la gestualità scenica del cantante, ha poi deciso di non indossare lenti a contatto scure e di mantenere il colore (troppo) chiaro dei suoi occhi. È così che, anche grazie alla scelta di dare il giusto spazio alla ricostruzione dei live e alla storia di alcuni dei brani più importanti dei Queen, il film ha finora incassato oltre 640 milioni di dollari in tutto il mondo ed è il biopic musicale di maggior successo nella storia del cinema (il secondo maggior incasso del 2018 in Italia). Del resto, anche Bohemian Rhapsody è passata alla storia, nonostante pesantissime quanto poco lungimiranti stroncature (e, forse, anche grazie ad esse).

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