LE REGOLE DA RISPETTARE NELLA VARIAZIONE DELLE MANSIONI

Il datore può, in determinate circostanze, assegnare il lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale. Lo ius variandi è consentito in due casi ossia nelle ipotesi di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore e quando sia previsto dalla contrattazione collettiva. Il giudice si limiterà ad accertare l’uguaglianza retributiva e la riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello di inquadramento contrattuale e non dovrà tener conto della storia professionale del lavoratore?

Le mansioni, nell’ambito di un contratto di lavoro subordinato, rappresentano l’oggetto contrattuale che, come tale, deve essere determinato o determinabile. Il datore di lavoro è titolare del c.d. ius variandi, che gli consente di modificare l’oggetto contrattuale anche al fine di conseguire una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro. Il datore può far svolgere al lavoratore mansioni per le quali è stato assunto o riconducibili al livello professionale di appartenenza, purché rientranti nella medesima categoria legale. In tal senso, la contrattazione collettiva ha il compito di definire gli inquadramenti professionali dei lavoratori.

L’imprenditore può adibire il lavoratore a mansioni riconducibili a livello inferiore al ricorrere di uno dei seguenti tre presupposti: la modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, l’inquadramento immediatamente inferiore e il rispetto della categoria legale di appartenenza.

Presupposti di legittimità sono la veridicità della scelta aziendale e il nesso di causalità fra la tale scelta e il demansionamento del prestatore di lavoro, ipotesi previste dai contratti collettivi. La variazione delle mansioni deve essere comunicata per iscritto al lavoratore, pena la nullità dell’atto di assegnazione a mansione di livello inferiore del lavoratore. Al lavoratore deve comunque essere corrisposto il trattamento retributivo d’origine, fatta eccezione per quegli elementi strettamente connessi alla mansione di provenienza.

Il Codice Civile prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia acquisito o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione e sancisce la nullità di ogni patto contrario. Tuttavia, il legislatore ha previsto la possibilità per il datore di lavoro di adibire il dipendente allo svolgimento di mansioni inferiori. Ciò può accadere nel caso del lavoratore divenuto inabile a seguito di infortunio o malattia; per la lavoratrice in gravidanza, nel caso in cui le mansioni di assunzione rientrino tra le mansioni a rischio o interdette in relazione allo stato della lavoratrice; per espressa previsione degli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di mobilità che stabiliscano l’assegnazione dei lavoratori in esubero allo scopo di evitare il licenziamento.

Nelle situazioni di crisi aziendale è comunque ammesso il demansionamento purché disposto previo consenso del lavoratore al fine di evitare il licenziamento reso necessario da una situazione di crisi aziendale.

Il Jobs Act ha previsto la possibilità di modificare le mansioni del lavoratore in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento. La legge prevede, inoltre, che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria, possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle menzionate.

La produzione degli effetti pregiudizievoli del demansionamento sul lavoratore è soltanto eventuale in quanto dall’inadempimento datoriale non deriva automaticamente l’esistenza di un danno.

Chi ha subito il danno deve provarlo con precisi oneri di allegazione e di prova così che il giudice possa accertare e valutare di fatto la concreta sussistenza e l’individuazione della specie del danno; liquidare il danno, anche in via equitativa sindacabile, in sede di legittimità, soltanto per vizio di motivazione.

I criteri di valutazione equitativa del danno adottati dal giudice di merito, devono consentire una valutazione adeguata e proporzionata, in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento.

Il demansionamento comporta l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle dovute, anche nella forma dello svuotamento o della sottrazione di mansioni, ovvero quando, all’esito della variazione, egli sia lasciato del tutto inattivo.

La dequalificazione si connota, per sua natura, nell’abbassamento del globale livello di prestazioni del lavoratore, con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione della sua professionalità. Il demansionamento, inoltre, lede l’immagine professionale del prestatore, intesa sia come insieme delle competenze acquisite, sia come identità del lavoratore percepita all’esterno nella società civile.

Tuttavia, lo ius variandi consentito al datore non può tramutarsi, anche nella nuova formulazione dell’art. 2013 c.c., in uno svuotamento sostanziale delle mansioni svolte dal lavoratore, o in una dequalificazione professionale dello stesso. Il lavoratore ha, infatti, il diritto di accrescere le proprie conoscenze teoriche e capacità tecniche acquisite, e di evolversi in parallelo con i processi di modificazione dell’impresa.

Dalla condotta datoriale in violazione dello ius variandi, può derivare un triplice tipo di danno: 1.Biologico per lesione all’integrità psico-fisica del lavoratore, degenerante in una patologia medicalmente accertabile; 2.Morale inteso come sofferenza interiore causata dalla commissione del fatto discriminatorio; 3.Esistenziale con conseguenze negative sulla vita sociale e professionale del prestatore.

Il livello di inquadramento, la categoria legale, la mansione e il trattamento retributivo possono essere modificati nelle sedi conciliative o avanti alle commissioni di certificazione, attraverso la stipula di accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.

La norma richiede la sussistenza di una delle tre ragioni giustificatrici: a. interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro; b. inidoneità sopravvenuta del lavoratore allo svolgimento di mansioni precedenti.

Di talché, il patto di demansionamento eviterebbe il licenziamento del lavoratore qualora questi non possa essere ricollocato in mansione equivalenti o di livello inferiore secondo la prescrizione normativa dell’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008.

L’accordo di demansionamento di cui al comma 6 dell’articolo in commento, costituisce un formidabile strumento, finalizzato alla conservazione del posto di lavoro, nelle ipotesi di licenziamento oggettivo: l’acquisizione di diversa professionalità; la conciliazione dei tempi vita-lavoro.

Nel caso in cui al lavoratore vengano affidate mansioni corrispondenti a diversi livelli professionali, il suo inquadramento deve essere effettuato con riferimento alla mansione primaria o caratterizzante, svolta con maggiore “frequenza e ripetitività”, ovvero “prevalenza”.

Nel caso di attribuzione di mansioni di livello superiore a quello di inquadramento il lavoratore ha diritto all’inquadramento nel predetto livello, salvo diversa volontà del lavoratore, dopo un periodo continuativo di svolgimento delle mansioni superiori, a meno che tali mansioni siano svolte in sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Deve trattarsi di periodi continuativi: non del cumulo di distinte e reiterate assegnazioni provvisorie di breve periodo. La legge fissa tale periodo continuativo in almeno sei mesi o nella minore misura eventualmente stabilita dai contratti collettivi.

Il prestatore di lavoro non ha diritto all’assegnazione definitiva della mansione, allorché la sua prestazione a mansione di livello superiore sia stata disposta per sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Il mutamento delle mansioni assegnate in fase di assunzione può essere anche conseguente alla variazione, da parte del datore di lavoro, del CCNL applicato. In questo caso occorre informare il lavoratore e aggiornare per iscritto le condizioni contrattuali, preservando in ogni caso il livello retributivo.

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