La civiltà dell’apparenza… Alla scoperta di chi si costruisce una reputazione online, priva di veri contenuti.

L’avvento di internet nelle nostre vite è paragonabile alla scoperta del fuoco: qualcosa che ha apportato enormi cambiamenti, accorciato le distanze, polverizzato i tempi di attesa e reso possibile cose inimmaginabili sino a 30 anni prima.

Ovviamente anche il mondo del lavoro ha dovuto riadattarsi, rivedersi, aggiornarsi e se oggi operare da remoto è ormai, e lo sarà sempre di più, la normalità, si assiste quasi ogni giorno alla nascita di nuove tipologie di impiego, nuove possibilità.

Un mondo così interconnesso, dove tutto è veloce, rischia spesso di stritolare nel tritacarne le persone e di focalizzarsi eccessivamente sull’apparenza, anche grazie ai social network che spesso veicolano contenuti di dubbio (o inesistente) valore e fake news. Ciò che conta, però, sembra essere quasi esclusivamente la capacità di coinvolgere gli altri, di suscitare reazioni, spesso di pancia, e di ricevere like e un seguito virtuale che possa essere monetizzabile.

Non esistono solo Facebook e Instagram, ma si sta facendo spazio anche Tik Tok, mentre, almeno in teoria, LinkedIn sembra giocare la sua partita su un campo diverso: quello dei professionisti.

Oggi però vogliamo svelare un po’ di altarini su Instagram: nata alla fine del 2010, per esaltare le capacità fotografiche del singolo, da coniugare con brevi ed incisivi messaggi di accompagnamento, questa piattaforma social è stata uno degli affari più importanti della storia del web: un miliardo di dollari sborsati dal patron di Facebook per acquistarla e farla diventare un mezzo di comunicazione e pubblicità davvero potente.

Ci si sono gettati in tanti, soprattutto sportivi, personaggi dello spettacolo e del mondo della moda, con alle spalle team dedicati, capaci di raggiungere platee di milioni di persone interessate ai loro contenuti. Il fenomeno più interessante, però, escludendo le aziende che sono riuscite a farne uno strumento anche simpatico per interagire con i propri clienti, effettivi o potenziali, è stato quello della nascita di una figura nuova: l’influencer, un termine difficilmente e concretamente declinabile nella nostra lingua.

Persone non necessariamente famose, appassionate di uno specifico settore, soprattutto quello della moda, che, attraverso scatti realizzati ad arte, generando costantemente nuovi contenuti, sono riuscite a crearsi una platea di migliaia di follower, divenendo in questo modo a loro volta aziende, in grado di strizzare l’occhio ai big del loro settore che hanno così deciso di cominciare ad investire su di loro come strumento alternativo di promozione del proprio brand e dei propri prodotti.

Sulla falsa riga di questi personaggi, come la ormai famosa Chiara Ferragni, imprenditrice digitale su cui è stato addirittura realizzato un film, o di personaggi che poco hanno da esibire, al di là del corpo, sono più recentemente arrivati i micro-influencer. Si tratta di utenti con profili anche molto curati, ma con platee ovviamente di gran lunga più esigue, che curano la propria presenza digitale principalmente con la speranza, un giorno, di poter avere un bacino di seguaci tale da potersi permettere di vivere di questa “attività”.

Attività che molti ambiscono a svolgere e che è il triste specchio della realtà in cui viviamo: una società che ci vorrebbe controllare, influenzare con chi abbiamo attorno, imporci modi di ragionare e scelte di acquisto, con l’obiettivo di annullare progressivamente il nostro io e la nostra capacità critica, per trasformarci in schiavi formati ad arte, con il solo diritto di lavorare per sperperare denaro in cose più o meno inutili. I trend di mercato si possono effettivamente costruire anche giocando su questi “moderni comunicatori”, la realtà però è che, molto spesso, dietro a certi profili, alle loro foto “similpatinate” e ai loro messaggi, spesso decisamente banali, si nasconde il nulla, la vacuità, l’assenza di contenuti veri e profondi.

Si mostra solo il meglio, si ritoccano le foto ad arte, si studiano tutti gli hastag più coinvolgenti, ma attenzione: non è tutto oro quello che luccica, anzi… Moltissime app e bot, infatti, permettono l’acquisto di like e follower assolutamente finti, ma che possono indurre lo spettatore più ingenuo a credere che veramente un certo microinfluencer abbia un seguito comunque rilevante in relazione a ciò di cui parla. In aggiunta a tutto questo, inoltre, va detto che esistono gruppi telegram appositamente creati per scambiarsi interazioni: follower, commenti e like, assolutamente privi di un reale interesse.

Una bel contenitore, dunque, che dall’esterno può indurre in tentazione, come il canto delle Sirene dell’Odissea, portando, a volte, le aziende a commettere scelte errate, decidendo di affidarsi a certi microinfluencer per promuoversi. Le cose, però, stanno cambiando, perchè è possibile analizzare con sempre maggior attenzione questi soggetti: sono, infatti, numerose le app specifiche che permettono di valutare attentamente i follower degli influencer, il loro livello di engagement e, soprattutto, la provenienza dei seguaci, perchè nel marketing, si sa, il target di riferimento è tutto.

Chi vuole avvalersi del supporto di uno di questi individui, allora, deve valutare se il pubblico che dichiarano è reale, veramente interessato a ciò che l’azienda commercializza e soprattutto se possa davvero valere la pena compiere tale investimento. Commenti molto brevi, che suonano artificiosi e con emoticon (faccine sfacciatamente ridicole), ad esempio, sono spesso indice di un classico comportamento costruito ad arte solo per far vedere che si ha un seguito o una interazione col proprio pubblico, ma che in realtà trattasi solo uno scambio di favori. Osservare anche la città di provenienza del follower e dell’autore del contenuto, inoltre, è molto utile per quelle aziende locali, con un bacino di utenza limitato ad una specifica zona, che non hanno alcun vantaggio a promuoversi al di fuori di uno specifico territorio: per un negozio di motociclette di Terni, per esempio, non ha alcun senso investire in un microinfluencer i cui seguaci sono sparsi nel resto d’Italia o nel Mondo, soprattutto nel terzo mondo! La maggior parte dei follower inutili, infatti, provengono principalmente da India e Africa: ecco quindi un altro indizio che può aiutarci a capire se abbiamo a che fare con un vero microinfluencer oppure con qualcuno che vuole apparire per ciò che non è.

Saper fare marketing non vuol dire “giocare” coi social (o almeno, non solo), scrivere un post sui social non vuol dire essere un blogger e saper comunicare non basta per essere un giornalista. Riscopriamo il vero significato delle parole e del lavoro; usiamo internet per quello che è: uno strumento per migliorare e semplificare le nostre esistenze, anche giocando, ma generando valore aggiunto reale, nelle nostre vite e, possibilmente, anche in quelle degli altri.

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