A 38 anni dalla morte del Giudice Rocco Chinnici “La mafia uccide ancora, assassinati a Palermo un giudice e tre persone”:

Così titolava l’edizione del Tg siciliano di 38 anni fa: quel 29 luglio del 1983.

In via Pipitone Federico, a Palermo, un’autobomba uccise il giudice Rocco Chinnici, 58 anni, capo dell’ufficio istruzione del tribunale e “padre” del pool antimafia di Falcone e Borsellino. Insieme al consigliere istruttore muoiono il portiere del palazzo, Stefano Li Sacchi, e due uomini della scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta.

L’unico sopravvissuto alla strage fu l’autista Giovanni Paparcuri, che oggi cura con grande dedizione il Museo della memoria Falcone-Borsellino al Palazzo di Giustizia di Palermo.

Giovanni Paparcuri, proprio ieri sera, ha espresso questo suo pensiero su Facebook:

“Il 29 luglio del 1983, mi svegliai come al solito verso le 6:30, non c’era nulla che facesse presagire che da lì a poco sarebbe successo l’inferno, a parte la vicenda del libanese che preannunciò la strage, ero sereno, magari ero convinto che certe cose non potevano accadermi, oppure ero tranquillo perché facevo un lavoro che ho voluto e che mi piaceva tantissimo, infatti per tale motivo lasciai le ferrovie. Mio padre non era d’accordo per questa mia decisione, mi ricordo che quando presi possesso mi disse, come un presentimento: “a tia ti succederà qualcosa”, ma me lo disse perché come una calamita attraggo tutte le situazioni pericolose. Comunque, feci colazione, preparata da mia madre, ossia un tazzone di latte come se dovesse essere l’ultima tazza della mia vita. Feci la doccia e mi vestii, e dovevo decidere se mettere la giacca o meno, la decisione dipendeva se portare la pistola o meno, in ogni caso non serve e non sarebbe servita a niente.

Per cui verso le 7 mi affacciai al balcone per assaggiare il tempo, il cielo era bello azzurro, e anche se non faceva tanto caldo, decisi che non avrei messo la giacca, poi il caldo l’avrei sentito poche ore dopo. Guardai giù, c’era ancora posteggiata la Lancia Fulvia coupé color oro del dr. Fiore, sì, il marito di Rita Borsellino, che io chiamavo signora Fiore e nemmeno sapevo che era la sorella del dott. Borsellino, abitavano anche loro in via Antonio Ugo, 70, loro al secondo piano e noi al terzo.

Presi la mia agendina, le chiavi della mia A112 blu, salutai mia madre che mi rispose stranamente solo con uno sguardo, mio padre era già all’officina. Andai con calma al Palazzo di Giustizia a prelevare l’Alfetta blindata beige, che non era in dotazione al Consigliere Chinnici, per lui c’era una Lancia Beta, l’Alfetta era stata

assegnata al giudice Falcone, io però preferivo guidare quest’ultima, perché era molto più maneggevole.

Arrivai in via Pipitone verso le 7:50, e posteggiai esattamente dove volevano i cosiddetti uomini d’onore, tra la 126 verde imbottita di tritolo e una 500 color beige, insomma quello spazio fu la trappola. Sul posto già c’erano i ragazzi con l’Alfasud di scorta, Alfonso Amato, Cesare Calvo, Mario Trapassi. La macchina militare con Antonio Lo Nigro e Ignazio Pecoraro. L’appuntato Bartolotta che doveva essere in ferie era sul marciapiede e giustamente incazzato.

Il signor Stefano Li Sacchi era già operativo a fare le pulizie e stazionava davanti il portone perché poi il consigliere passando, come ogni mattina, gli avrebbe stretto la mano.

Scesi dalla blindata, salutai tutti e stavo per leggere il giornale appoggiandomi sul cofano dell’autobomba, senonché l’appuntato Bartolotta mi pregò di andare a prendere la ricetrasmittente che si trovava nell’auto di scorta per posizionarla nella blindata, così feci e fu la mia salvezza.

Tralascio i ricordi di cosa provai subito dopo l’esplosione, perché li ho già raccontati, tuttavia quando ripresi conoscenza mi vennero in testa le parole di mio padre. Il cielo azzurro che vidi alle 7, alle 8:10 era diventato rosso sangue e faceva tanto caldo”.

Poco tempo prima di morire Chinnici disse: “Io non ho paura della morte… e so benissimo che possono colpirmi in ogni momento”.

“Bisogna parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai”. Questo avrebbe voluto Chinnici e questo bisogna fare, non piegarsi mai a nessun compromesso e denunciare tutto quello che distrugge la nostra società.

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