Di necessità virtù: l’origine dell’Arlecchino muto per spavento di Luigi Riccoboni

Nel 1716 i migliori attori italiani furono convocati a Parigi dal capocomico Luigi Riccoboni, in arte Lelio, per portare sulla scena quella che diventò una delle pièces più rappresentative della Commedia dell’Arte: l’”Arlecchino muto per spavento”. La scelta del cast dev’essere stata più che mai delicata, se si considera il lungo periodo di assenza forzata dalla capitale francese -15 anni- cui furono costretti i Comici italiani prima di questa rappresentazione: fu proprio per questa ragione che Riccoboni volle al suo fianco i più talentuosi teatranti presenti sul suolo italiano. In particolare, per interpretare il ruolo del protagonista, Arlecchino, il capocomico scelse Tommaso Visentini, detto Thomassin, giacché il precedente attore che aveva impersonato il servo bergamasco -l’amato e acclamato Evaristo Gerardi- era scomparso. Da subito, tuttavia, si presentò un impedimento apparentemente insormontabile per Visentini: quest’ultimo non conosceva il francese, capacità cruciale nella prospettiva di doversi esibire di fronte al pubblico parigino. Fu esattamente da questa difficoltà che l’inventiva e la genialità di Riccoboni poterono mostrarsi in tutta la loro ampiezza: il capocomico, infatti, decise di risolvere la questione inventando un nuovo canovaccio -originale e perfettamente allineato con i gusti del pubblico francese-, in cui Arlecchino…non avrebbe parlato, ma per spavento! La trama vuole infatti che, ingannato dal suo padrone perché non rivelasse il vero motivo del suo viaggio a Milano, Arlecchino creda che nell’anello di Lelio viva imprigionato un demone pronto a rivelargli se mai il servitore avesse parlato, pena la decapitazione di quest’ultimo. Perciò, privato della parola ma non della sua natura, Arlecchino adorna il suo soggiorno milanese con avventure di ogni tipo: incontra addirittura l’amore negli occhi di Violetta, la serva della commerciante di stoffe Stramonia, la quale però già aveva rubato il cuore dell’avaro oste Trappola, con cui il servo bergamasco deve misurarsi per ottenere la mano dell’amata. Nell’intrecciarsi di tre storie d’amore tanto tormentate quanto intense, Arlecchino emerge quale motore privilegiato della macchina comica, resa perfettamente funzionante dal ricorso sistematico alla gestualità e alla mimica, veri e propri linguaggi universali nel variegato contesto delle mises en scène. Omaggiando le origini popolari del teatro della Commedia dell’Arte e rinverdendone la memoria nella capitale francese, Riccoboni riuscì a conciliare le aspettative del pubblico con le necessità particolari della sua compagnia dando vita un’opera senza tempo, esempio vibrante e brioso – ma non per questo meno introspettivo e profondo- delle innumerevoli sfumature di un personaggio, quello di Arlecchino, in grado divertire e commuovere, una maschera dalla natura tanto caleidoscopica quanto lo sono i colori del suo costume.

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