Le radici dell’Occidente

Platone e Aristotele, il Timeo e l’Etica, il dito puntato verso la Trascendenza e la mano che indica il tóde ti. Il significato veicolato dal particolare centrale della Scuola di Atene di Raffaello (1509-1511, Musei Vaticani, Roma) veicola già da solo diversi e assai importanti significati al punto da meritare, rispetto a tutto il resto dell’affresco, un discorso a sé. Non a caso ad esso, diversi anni fa (siamo nel 2005), il compianto Giovanni Reale dedicò un bel volume edito dalla Bompiani. La logica che deve guidare l’interpretazione autentica (filosofica, s’intende) del particolare dell’affresco è quella inclusiva dell’et et, non sicuramente quella escludente dell’aut aut. Dal punto di vista storico è corretto distinguere la tradizione platonica rispetto a quella aristotelica. Con Platone, infatti, il baricentro della ricerca filosofica è tutto proteso verso il fondamento assoluto e trascendente della realtà. Tale baricentro, che in estrema sintesi potremmo dire essere costituito ad un certo livello dalle Idee (con a capo l’Idea del Bene) e poi dai Principi dell’Uno e della Diade, non appartiene a questo mondo e anzi questo mondo, che ne è copia imperfetta e peritura, è trasceso da esso costituendone il modello assoluto. La vita del filosofo, nella prospettiva platonica è tutta tesa verso un mondo altro (istanza, questa, che sarà evidentemente ripresa dal Neoplatonismo e proseguirà nel Medioevo con la tradizione neoplatonico-agostiniana). La rivoluzione metafisica messa in atto da Aristotele, invece, ha ridato dignità ontologica al mondo della natura, e quindi alle scienze che di esso si occupano. La sostanza individuale, il tóde ti, è evidentemente il cuore pulsante della concezione aristotelica, orientata verso una riabilitazione filosofica del complesso concetto di divenire, che in Platone non godeva certo di grande importanza (a tal proposito giova ricordare che la filosofia aristotelica è stata definita «mondiale», per rilevarne appunto l’interesse verso il mondo della natura). Bisogna inoltre non dimenticare l’estensione semantica e ontologica del concetto di essere, che in Aristotele non designa più soltanto le realtà immobili, imperiture, sempre uguali a se stesse intuibili soltanto noeticamente. Al contrario esso è ora esteso a tutta la realtà percepibile con i sensi. I due paradigmi in questione, quello platonico e quello aristotelico, contrapposti storicamente da differenze radicali sotto tutti i profili (metafisico, politico, etico, psicologico) possono però di certo convivere – anzi, devono – grazie ad una logica della complessità capace sì di valorizzare il mondo naturale, del quale l’uomo è sicuramente parte (secondo il principio fermo e imprescindibile dell’eco-appartenza umana al tessuto naturale) senza tuttavia ignorare quelle aperture verso dimensioni ulteriori che pure la realtà – correttamente interrogata – continuamente ci propone. Il concetto di meraviglia, al quale hanno fatto riferimento sia Platone nel Teeteto (115D) sia Aristotele nella Metafisica (I, 2), gioca sicuramente un ruolo centrale in questo processo. Difatti, mi piace immaginare il calmo passeggio di Platone e Aristotele, reso perfettamente dalle pennellate di Raffaello, come un lento procedere in avanti, verso la Verità, in un modo però non univoco, ma comprensivo di metodi e prospettive diverse. In primis quelle esemplificate in modo assai paradigmatico da Platone e Aristotele, che nel loro dialogare artistico, ci indicano in modo chiaro e perentorio la soluzione a complesse problematiche filosofiche: guardare a questo mondo per scorgerne le tracce dell’Altro, e riflettere sull’Altro per comprendere le dinamiche di questo.

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