La S. Margherita di Annibale Carracci nella cappella Bombasi in S. Caterina dei Funari

Un momento fondamentale nella carriera di un pittore in epoca moderna era quello del suo pubblico esordio. Infatti, per quanto dipingere una tela destinata alla dimora, sfarzosa ma privata, di un nobile committente potesse essere altrettanto – talvolta persino più – remunerativo, nulla giovava alla fama dell’artista più di un’opera esposta al folto pubblico che affollava le chiese; ad essere importante non era tanto la committenza (sebbene una commissione papale rappresentasse il non plus ultra in termini di valore percepito e nonostante il grado di orgoglio dell’artista per un’opera commissionata scendesse o salisse anche proporzionalmente allo status sociale del suo committente) quanto più la collocazione dell’opera, la quantità di persone che l’avrebbero vista e commentata, apprezzandola o denigrandola.

Realizzare un affresco oppure una tela per una chiesa, luogo pubblico per eccellenza, rappresentava dunque un traguardo fondamentale anche nel caso in cui la committenza riguardasse una cappella privata, specialmente se all’artista veniva chiesto di occuparsi non della volta o di una delle pareti laterali ma della pala d’altare, punto focale dell’intera cappella e centro artistico e teologico della sua decorazione.

Proprio questa fu la circostanza dell’esordio pubblico di uno dei protagonisti della pittura italiana tra la seconda metà del Cinquecento e il primo decennio del Seicento: Annibale Carracci, guida e campione della scuola bolognese, pittore universale in grado di padroneggiare tutti gli strumenti dell’arsenale pittorico del tempo, dal colore alla composizione, dalla citazione erudita del classico alla rappresentazione degli affetti, dalla retorica gestuale delle figure ai paesaggi.

Annibale Carracci, che era giunto a Roma nel 1594 (dopo una fervida e fertile produzione – insieme al fratello Agostino e al cugino Ludovico – nella natia Emilia, tra Roma e la quale continuò a fare la spola nei due anni successivi), riceve nel 1599 un incarico pubblico da parte di qualcuno che già sette anni prima gli aveva commissionato (per la cappella del Collegio dei Notai nella cattedrale di Reggio) una pala d’altare: l’intellettuale reggiano Gabriele Bombasi, il quale peraltro fece probabilmente da tramite tra Annibale e il suo più importante committente romano, il cardinale Odoardo Farnese (tra le opere frutto di questo sodalizio anche la celebratissima Galleria di Palazzo Farnese), del quale Bombasi era stato precettore.

La cappella in Santa Caterina dei Funari aveva una funzione presentativa importante, in questo caso, anche per il committente, che mirava a far colpo sul pubblico romano, e re-ingaggiare l’astro della pittura nuova della sua terra patria si rivelò una scelta efficace.

La figura della santa Margherita a Roma è una copia esatta della Santa Caterina che animava insieme a S. Luca quella pala con la Vergine e il bambino (oggi al Louvre) che Annibale aveva realizzato per lo stesso Bombasi nel 1592. Le differenze tra le due sante sono minime: entrambe si appoggiano allo stesso plinto di foggia classica, entrambe tengono in mano lo stesso libro, entrambe indicano verso l’alto.

Eppure ciò che è attorno alle due figure le rende completamente diverse: se la santa retore a Reggio si sporgeva verso lo spettatore e attraverso il gesto della mano lo invitava a sollevare lo sguardo oltre il cielo azzurro, per posarlo più in alto, tra le nubi, dove rifulgevano i protagonisti dei testi sacri, la santa

Margherita è sola, domina completamente la tela sul fondo della quale si intravede un paesaggio umido, atmosferico (alla veneziana) come non se ne erano mai visti a Roma, ed è illuminata da una luce pomeridiana naturalissima, che non è squarciata da nessun raggio divino, senza putti che si affacciano tra quelle nuvole realistiche; al vociare degli angeli e dei santi si sostituisce un silenzio riflessivo all’ombra di un calmo boschetto che le rovine in primo piano facilmente fanno associare alla campagna romana.

Lo sguardo dello spettatore vaga nel paesaggio che si apre alle spalle della santa in cerca di Dio; non trovando nulla torna a lei (che pazientemente attende che anche lo spettatore veda quel che vede lei), torna al suo gesto – amplificato dalla scritta in capitali latine sursum corda, “in alto i cuori”, scolpita nel plinto – e stavolta ne segue la direttiva, trovando infine la risposta non nello spazio della tela, ma al di sopra: nella cimasa firmata dallo stesso Annibale Carracci e da Innocenzo Tacconi, suo collaboratore.

In questo spazio altro, infatti, su un fondo oro vaporoso, immateriale e luminoso come l’aldilà, erede della tradizione musiva tardoantica e medievale, si affacciano le figure della Vergine e del Cristo che la sta incoronando. Si tratta di una ripresa diretta degli affreschi (non più in situ) che Correggio aveva realizzato nel 1521 per il catino absidale della cattedrale di Parma: un attestato di stima nei confronti di un artista che nella variegata formazione di Annibale ebbe un grande peso.

La Vergine di Carracci e Tacconi, però, a differenza della controparte correggesca, guarda verso il basso: si accorge della santa, ne vede la mano protesa, capisce – lo vediamo dallo sguardo – che sta indirizzando qualcuno verso di loro e quasi ci sembra spontaneo supporre che di lì a poco la Vergine, seguendo a sua volta – ma a ritroso – il percorso tracciato dal busto e dalle braccia della santa, si imbatta nell’osservatore, trovandolo ormai impegnato a contemplare lei e suo Figlio.

Annibale Carracci è in grado, in quest’opera come altrove, di reinventare una prassi iconografica e decorativa conferendo naturalezza al ruolo tradizionale (e per questo fortemente impostato) dei santi quali figure di tramite tra piano umano e piano divino – e come esempi che il fedele è invitato a seguire se vorrà unirsi un giorno alla gloria celeste – e a quello altrettanto consolidato di Maria come figura in grado di intercedere presso Dio.

Come S. Bernardo aveva fatto con Dante poco prima di pronunciare la sua preghiera d’intercessione alla Vergine, così la S. Margherita di Carracci esorta l’osservatore (il fedele, nell’idea alla base della pala) perché guardi “suso”, a “ficcar lo viso per la luce etterna” dell’Incoronazione della Vergine, un soggetto che nel fervente clima della Controriforma conosce una rinnovata popolarità: si tratta infatti del momento teologico che più di ogni altro sancisce l’identificazione di Maria con la Chiesa, la stessa Chiesa che sin dalla fine del concilio Tridentino (1563) si stava impegnando nella radicale modifica dell’immagine di sé che presentava al mondo: la nuova Chiesa era gioiosa, gloriosa, festante e trionfante, attenta al fedele e pronta a confortarlo. E quale mezzo migliore della pittura, efficace e pervasiva, per catturare l’attenzione del fedele e indirizzarla verso questa nuova, monumentale e aggraziata visione?

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