I fratelli Zuccari e la decorazione esterna del palazzetto di Tizio di Spoleto

Una consuetudine artistica della Roma cinque e seicentesca che oggi non è più possibile – nella maggioranza dei casi – osservare riguardava la decorazione ad affresco delle facciate dei palazzi.

Alcuni decidevano di ornare gli esterni (e i cortili interni) delle proprie dimore principesche con reperti archeologici – incastonandoli nelle pareti – oppure con sculture spesso ispirate all’antico – busti di imperatori romani, ad esempio, oppure personaggi del mito o della storia repubblicana – con l’intento di celebrare sia la propria ricchezza e il proprio buon gusto sia l’antichità (o presunta tale) del proprio casato.

Un’altra opzione, come detto, prevedeva una decorazione ad affresco i cui soggetti potevano attingere al repertorio classico, greco o romano – gli eroi del passato fungevano allora da manifesto delle qualità che il proprietario del palazzo possedeva o riteneva di possedere – oppure a quello cristiano. In ogni caso si trattava di una forma di autopromozione e racconto di sé e delle proprie aspirazioni che offriva anche agli artisti coinvolti nella decorazione una possibilità allettante.

Esisteva, infatti, una gerarchia nelle committenze: un’opera pubblica, proprio perché visibile potenzialmente a chiunque, contribuiva alla fama – e dunque anche al valore di mercato – di un artista ben più di quanto non facesse un soffitto affrescato in un palazzo signorile, della vista del quale avrebbero potuto godere soltanto i committenti e i selezionati ospiti ammessi nella loro dimora.

Non tutti i luoghi pubblici, poi, erano uguali: una committenza papale, ad esempio (specialmente se nella basilica di San Pietro in Vaticano) si qualificava già di per sé, per un artista, come un altissimo riconoscimento del proprio valore e, soprattutto, come un’importante opportunità pubblicitaria, un palcoscenico che avrebbe radunato moltissimi sguardi e di conseguenza avrebbe potuto portare ad un ampio, virtualmente universale, consenso.

Altre committenze pubbliche per le quali gli artisti erano prontissimi a darsi battaglia – e non soltanto a colpi di pennello – erano quelle per le cappelle private nelle chiese. Benché la proprietà della cappella fosse di una famiglia, infatti, la vista delle opere che la ornavano era possibile per qualsiasi fedele mettesse piede nella chiesa e sono molti gli aneddoti – più o meno veritieri – che, nella letteratura artistica, testimoniano della fruizione di queste tele e pareti dipinte da parte del cosiddetto popolo, rappresentato ora come incolto e facilmente impressionabile, ora come portatore di una verità dai tratti quasi infantili, dettata dalla pura fede e non appannata dalla conoscenza delle finezze dell’arte.

Le facciate dei palazzi si collocavano, in questa scala delle committenze, ad un livello intermedio. Uno degli esempi ancora oggi visibili di questo tipo di produzione si trova in Piazza Sant’Eustachio, alle spalle del Pantheon e di Sant’Ivo alla Sapienza. La facciata esterna è opera dei fratelli Taddeo e Federico Zuccari – Taddeo morirà nel 1566 ma Federico sarà un nome importante (e per alcuni soffocante) nell’arte del tempo, espressione di una pittura accademica e tradizionale e di un modus operandi che si sforzava di creare una sintonia con la direzione che alla pittura ecclesiastica aveva voluto suggerire il Concilio di Trento: un’arte che fosse didattica, morigerata, semplice e festosa esattamente come la Chiesa aveva la necessità di presentarsi, nel suo rebranding postconciliare, al pubblico dei suoi fedeli.

Il palazzetto era stato costruito nella prima metà del secolo per Tizio di Spoleto, maestro di camera dell’allora cardinale Alessandro Farnese (futuro Paolo III); la decorazione esterna venne realizzata dagli Zuccari dopo il 1559 (come suggerisce la presenza dello stemma di Pio IV Medici). In quegli anni Taddeo, il maggiore, era a capo di una bottega di successo della quale era entrato a far parte anche suo fratello Federico quando, nel 1550, lo aveva raggiunto a Roma (da Sant’Angelo in Vado, nell’allora ducato di Urbino). Sulla facciata sono raffigurate scene della vita di Sant’Eustachio, generale romano che si convertì, secondo il racconto agiografico, durante una battuta di caccia: si rifiutò infatti di uccidere un cervo perché tra le sue corna apparve una croce; questa sua conversione lo portò al martirio sotto l’imperatore Adriano.

Il racconto che i fratelli Zuccari realizzano è imbevuto di riferimenti a Michelangelo e Raffaello, punte di diamante della grande pittura della “maniera moderna” che costituiva per questi artisti un modello legittimante; ma le tinte sono schiarite e rese più leggere, i contorni sono nitidi, la composizione è essenziale: è un linguaggio comprensibile e piacevole alla vista, ben lontano dalla sperimentazione dei due maestri sopracitati e anche da quelli che erano percepiti, da questi pittori rigorosi e votati alle regole, come gli eccessi del primo manierismo, con le sue linee decise e i suoi colori audaci.

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