Il cosiddetto Palazzo di Teodorico a Ravenna

La struttura erroneamente nota come palazzo di Teodorico a Ravenna è in grado di raccontare, in realtà, il momento di innesto, su un territorio traboccante di tradizione antica, di una radice diversa, uno dei germogli primitivi di un linguaggio che si sarebbe poi diffuso in gran parte del territorio italiano, caratterizzandone a lungo l’immagine architettonica.

Tra VII e VIII secolo il contesto è quello di un generale rinnovamento dell’architettura: in parte si assiste ad un’attività edilizia che per lo più ripete schemi già esistenti – è il caso, per esempio, di Roma – mentre in altri luoghi, tra i quali figura la Romagna, questo impulso si traduce in una sperimentazione che assume i contorni di un ripensamento di alcune forme, ripensamento che si nutre anche dell’osservazione attenta dei monumenti antichi e che risulta particolarmente visibile nell’incremento dell’articolazione delle pareti esterne, sulle quali compaiono lesene e fughe di archi ciechi che manifestano al di fuori la divisione interna di volte e campate.

Nella città di Ravenna l’unico monumento che partecipa a questa atmosfera costruttiva generale è quello che in alcune vecchie mappe della città viene denominato come Palazzo di Teodorico. Si tratta in realtà della chiesa di San Salvatore ad Calchi, o meglio, della sua facciata occidentale.

Secondo l’ipotesi più probabile ad erigere l’edificio, datato alla metà dell’VIII secolo, fu il re longobardo Astolfo; la chiesa sorse dunque come cappella palatina, ossia legata funzionalmente al palazzo regio.

Non sorprende infatti che l’unica iniziativa edilizia di una qualche imponenza nella città abbia avuto una committenza regia: in tutto il mondo longobardo, infatti, le uniche tasche dotate dei mezzi atti a sostenere la creazione di un cantiere (con i suoi materiali da costruzione e la sua équipe di artisti, artigiani e altri specialisti, di volta in volta impegnati nella realizzazione di un monastero, di un palazzo oppure di una cattedrale) erano quelle dei re e dei duchi, rispettivamente nella parte settentrionale della penisola e nei ducati di Spoleto e Benevento.

Anche le dimensioni dell’edificio, monumentali, all’epoca non rappresentavano la norma; il sovrano, nel finanziare i lavori di costruzione dell’imponente chiesa palatina, avrebbe avuto la chiara intenzione di servirsene come uno degli strumenti che aveva a sua disposizione per operare una dimostrazione assertiva del proprio potere, edificandone un segno estremamente visibile.

La facciata occidentale ancora oggi visibile rivestiva, originariamente, un nartece ed un esonartece, ad entrambi dei quali corrispondeva, al piano superiore, una sala.

La decorazione, centrata su un asse mediale sottolineato da due grandi aperture e amplificato lateralmente da arcate di dimensioni minori disposte in serie, è testimone di un punto di svolta nella grammatica decorativa delle pareti di facciata: da una parte rappresenta l’adozione di un ingresso occidentale monumentalizzato, con un suo carattere ornamentale ben definito; dall’altra, con il suo equilibrio compositivo tra le grandi aperture della parte centrale, leggermente aggettante, e – gerarchicamente disposte a scalare – le serie di arcatelle cieche, questo diverrà lo schema di base sul quale poi si articolerà la facciata preromanica e romanica che conoscerà in Italia la maggiore diffusione.

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