Era l’agosto del 2021, quando le truppe statunitensi comunicarono e completarono il ritiro dall’Afghanistan. Ed alla metà dello stesso mese, i Talebani, riconquistarono totalmente la regione, prima ancora che l’esercito americano e i contingenti della NATO concludessero l’evacuazione del personale militare e civile, cessando dopo venti anni una campagna militare che, se è forse stata utile ad eliminare le basi terroristiche che minacciavano l’occidente, non è riuscita ad annientare i gruppi islamici che governavano il Paese nel 2001, nel periodo dell’intervento disposto dal presidente George W. Bush, dopo l’attacco alle torri gemelle di New York. E in conseguenza della occupazione di Kabul e la proclamazione dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, l’opinione pubblica internazionale si è di nuovo interessata, dopo venti anni di ritardo, delle sorti del Paese.
Tuttavia, la nazione sta passando una delle più gravi crisi sociali, umanitarie, ed economiche mai avutesi. La situazione è tragica: l’inflazione è balzata ad un livello altissimo, in Afghanistan c’è un limitatissimo accesso alla liquidità, mentre il costo della vita è elevatissimo.
In tale ambito, la peggiore siccità degli ultimi tre decenni ha portato l’Afghanistan ad essere il Paese con il più grande numero di persone che soffrono di insicurezza alimentare nel pianeta. Oltre a ciò, l’insufficienza e la contaminazione delle acque ha accresciuto il pericolo di prendere tante malattie prevenibili. Queste carenze, sono in parte la causa dell’aumento degli sfollati interni. Inoltre, come ogni anno, l’inverno ha contribuito ad un peggioramento delle condizioni già problematiche, in particolar modo nelle regioni montagnose. Le strade sono bloccate ed i rifornimenti non riescono a giungere, e le famiglie stentano ad assicurarsi un pasto e a scaldarsi. I crimini stanno crescendo in maniera esponenziale, soprattutto le rapine a mano armata e i rapimenti, per lo più per fame, con la minaccia terroristica ormai fuori controllo. Quando i Talebani sono saliti al potere, i finanziamenti e gli aiuti alla nazione sono stati sospesi dall’Occidente.
Ma come si finanziano attualmente i Talebani?
Con la produzione dell’oppio che nella regione è aumentata dell’8% nel 2021, considerando che il volume complessivo degli oppiacei è già arrivato a 6800 tonnellate circa, e ci si aspetta un peggioramento nell’imminente futuro. Ma oltre all’oppio, dal 2016 in Afghanistan, si realizzano metamfetamine purissime in virtù di una pianta “ephedra sinica”, e potrebbero essere prodotte di esse migliaia di tonnellate all’anno andando così ad invadere le piazze di spaccio europee. Ricordiamo ancora, oggi, l’aumento del numero di tossicodipendenti, con un tasso di morti per overdose mai registrato prima d’ora.
Ciò che inoltre preoccupa, è che dal 2005 ai giorni nostri, l’Afghanistan continua ad avere il più elevato numero di bambini a livello complessivo vittime di violazioni dei diritti umani. Su 260 mila, 27 mila sono nel Paese. I bambini sono anche in pericolo di reclutamento, lavoro forzato, mutilazioni o morte per guerre o mine inesplose, tratta e matrimoni precoci e forzati. Oltre poi all’abbandono scolastico: le famiglie non mandano i figli a scuola perché non hanno disponibilità economica e devono farli lavorare. Il più delle volte sono assenti gli insegnanti, non percependo più gli stipendi, mentre a bambine e ragazze i talebani hanno proibito l’istruzione. Come se non bastasse, ulteriormente ci si continua a sposare in giovane età: il 17% consegue il matrimonio prima dei 15 anni, il 46% prima dei 18. Le giovani mogli e le coetanee non sposate sono vittime spesso di violenze e abusi. Le ragazze poi, non hanno la possibilità di avere informazioni riguardanti la salute sessuale e riproduttiva, un grave ostacolo che compromette il loro benessere psicologico e fisico.
E il contesto continua a peggiorare per le donne: oltre i 72 kilometri, ora dovranno essere accompagnate da un uomo della famiglia e gli autisti non le potranno accogliere sui loro veicoli se non portano il velo islamico. Una donna afgana, attualmente non può lavorare fuori casa, ad eccezione di alcune donne medico ed infermiere, e nemmeno fare attività se non accompagnate da un mahram, un parente stretto come il padre, il fratello o il marito. Ancora non è permesso di relazionarsi con negozianti uomini, essere visitate da dottori maschi o studiare in scuole, università o altre strutture educative. Le restrizioni includono anche le normali attività come andare in bicicletta o in moto, portare tacchi alti, poter intervenire a trasmissioni radio o TV. Poi è proibito fare sport, indossare abiti colorati, anzi è imposto dalle autorità il burqa, punizione violenze e frustate, adoperare cosmetici, ridere ad alta voce. Attualmente, sono previsti bus per sole donne e non esistono bagni pubblici femminili; e per le donne che hanno relazioni fuori dal matrimonio è contemplata la lapidazione pubblica. I talebani non danno la possibilità alle donne di occupare posizioni di leadership in Afghanistan e reprimono in modo devastante le proteste per i loro diritti. A dire il vero, la società afgana è sempre stata una società patriarcale, sino alla caduta di Kabul, ma le donne picchiate dai loro mariti potevano andare ad un commissariato per denunciare. Ora sono crimini che rimangono in genere impuniti. Altra legge emanata, si riferisce al divieto di utilizzare immagini femminili. Lo scopo è di cancellare l’effigie della donna. Il conflitto ventennale ha determinato milioni di vedove di guerra e il Covid-19, in un Paese dove solo il 2% è vaccinato, ha in modo esponenziale accresciuto il numero delle donne sole. Molte di loro sono poverissime, analfabete, obbligate a mendicare per sopravvivere mettendo a rischio la loro vita da quando i talebani hanno proibito a loro di uscire dall’abitazione senza un tutore maschio. Parliamo di tutte quelle donne che non hanno nulla e rischiano persistentemente di non riuscire neanche ad elemosinare per supportare la loro famiglia. Per le donne e le ragazze afgane, il potere acquisito dai talebani, rappresenta una sopraffazione organizzata e spietata riferita a tutti gli aspetti della loro vita. Infatti non c’è più il concetto di libertà di espressione mediante il controllo continuo degli uomini. I talebani non nascondono l’intenzione di plasmare attraverso i loro principi tribali le donne afgane, divenute dall’estate passata cittadine di infimo livello e vittime appunto di una serie di ordinanze restrittive varate dal nuovo governo. Sono loro il preminente obiettivo dei leader religiosi, ma anche lo scopo d’essere di quest’ultimi, non all’altezza nella gestione della nazione, cercando di risolvere la gravissima crisi economica che la distingue.
Ma in realtà qual è il futuro per il patrimonio culturale e artistico dell’Afghanistan?
In questa situazione, anche il suo straordinario patrimonio va incontro a gravissimi pericoli, per l’eventualità di attacchi e distruzioni e a causa del probabile cedimento degli apparati gestionali con fatica creati per la conservazione e la tutela dei monumenti. Il ricordo della brutale distruzione delle statue colossali dei Buddha di Bamiyan, compiuta dai talebani nel marzo del 2001, è ancora nella memoria del mondo intero come prova massima di efferatezza nei confronti del patrimonio culturale. L’ISIS ha sempre conferito grande rilievo alla documentazione e alla circolazione sui mass media delle demolizioni realizzate, convertendo così la distruzione stessa delle antichità in uno spettacolo e in un arma di propaganda. Nel febbraio del 2015, fu quindi diffuso un video che esibiva le sale del Museo di Mosul abbattute a colpi di mazza dai militanti islamici. Distrussero alcuni rilievi assiri e le più tarde statue dei sovrani di Hatra, una città-stato governata da principi arabi, che era situata ai confini fra l’Impero romano e quello partico-sasanide. Tra il marzo e l’aprile del 2015, in vero e proprio aumento di violenze, altri video riportarono la distruzione di molti siti archeologici tra cui il Palazzo d Ashurnasirpal II edificato nel IX secolo. Nella capitale assira di Nimrud, le mura dell’altra capitale Ninive e alcuni edifici della stessa Hatra. Poi, nell’agosto del 2015, riguardò la città carovaniera di Palmira, facente parte dell’Impero sempre però con propria autonomia. In questo contesto, le distruzioni furono create dagli esplosivi e inizialmente riguardarono i monumenti funerari e il Tempio di Bel, preservando il teatro, che nel luglio era stato purtroppo adibito a orrendo scenario della condanna a morte di un gruppo di fedeli al regime di Assad. Lungo il 2016 le distruzioni sono proseguite: lo ziqurrat di Nimrud è stato raso al suolo dai bulldozer in ottobre, e nel gennaio del 2017 Palmira è stata ulteriormente danneggiata, sono stati abbattuti il fronte scena del teatro e il tetrapylon, cioè un arco onorario realizzato da Diocleziano. L’esecuzione del valoroso archeologo siriano Khaled al-Asaad, che aveva mandato via i reperti del Museo di Palmira risparmiandoli, in questo modo dalla sicura distruzione, è stata motivata con la scusa che egli avrebbe “promosso l’adorazione delle statue”. La proibizione delle immagini e la condanna dell’idolatria, sono infatti, la giustificazione teologica che l’ISIS dà per la sua propaganda iconoclastica. Ma non è la prima volta nella storia, che, distruzioni di opere d’arte sono giustificate pubblicamente da ragioni religiose: ricordiamo l’iconoclastia che divise il mondo bizantino tra VIII e il IX secolo, o l’età della Riforma del XVI secolo, quando ci si accanì contro diverse immagini cattoliche.
Oggi non sappiamo ancora quale sarà il comportamento dei Talebani nei confronti del patrimonio afgano, e neanche se i molti progetti internazionali intrapresi nella nazione per la sua conservazione continueranno. In relazione al patrimonio culturale, l’Afghanistan ha un potenziale in gran parte ancora inesplorato, il Paese infatti si può definire “il cuore dell’Eurasia”, che, esattamente per la sua ubicazione di cardine fra mondi differenti ma tra loro comunicanti, nel coso del tempo ha dato e avuto stimoli illimitati.
Ma nonostante tutto desideriamo rievocare la storia e la vita di un Paese splendido, in un passato sogno di viaggiatori e archeologi, del suo patrimonio monumentale e archeologico, della sua civiltà.
Ampissimo e ancora in parte sconosciuto è il patrimonio culturale dell’Afghanistan, nella nazione si sono intrecciate per millenni etnie, religioni e culture che hanno lasciato testimonianze di grande importanza.
Tantissimi siti esistenti, ma soltanto due sono per adesso nella lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco. Il primo, 2002, è stato il sito del Minareto di Jam, situato nella erta valle del fiume Hari-Rud, ad oltre 200 kilometri ad est di Herat, in una zona isolata a quasi 2000 metri sul livello del mare. Questo meraviglioso monumento, una “torre della vittoria”, venne costruito nel 1194 dal sultano Ghuride Ghiyas-od-din, 1153-1203, per celebrare la conquista dell’impero. Il secondo sito è stato il Paesaggio Culturale e l’archeologia della Valle di Bamyan, anch’esso pesantemente danneggiato dai talebani. Esso rappresenta la maggiore dimostrazione di più di un millennio di storia, I-XIII secolo, della Battriana, lungo cui l’integrazione di differenti influenze culturali, per lo più greca e indiana, ha generato la straordinaria cultura artistica del Ghandara, di cui i due grandi Buddha demoliti, alti rispettivamente 55 e 38 metri, erano la più rilevante manifestazione. Oltre a questi due siti, citiamo altri quattro presenti nella “tentative list” del Patrimonio mondiale: Bagh-e Babur, il giardino di Babur a Kabul, il solo giardino del periodo timuride arrivato sino a noi, splendidamente restaurato dall’Aga Khan Trust for Culture nell’ultimo decennio; la città storica di Herat, una delle più importanti capitali dei regni abbasidi, dopo totalmente ristrutturata nel corso della dinastia timuride nel XV secolo, pienissima di monumenti fra cui la celebre Cittadella, il complesso del Musalla con il mausoleo di Gawharshad, il mausoleo di Khwaja Abdulla Ansari a Gozargah e la Moschea del Venerdì di epoca Ghuride. Ancora la città di Balkh nella regione di Mazar-i Sharif, l’antica Bactria, cuore della spiritualità zoroastriana, poi del buddismo ed infine rilevante centro politico e culturale nel periodo della dominazione araba, terra d’origine dell’insigne filosofo Avicenna, 980-1037, e del poeta Firdusi.
Ed è l’Afghanistan, a mostrarci, nell’ambito archeologico, l’esempio sino adesso più significativo della presenza greca nell’area iranico-indiana centroasiatica con la città di Ai Khanum, in uzbeko “Signora luna”, nell’antica Battriana, scoperta nella metà degli anni Sessanta del secolo scorso dalla DAFA, Delegation Archeologique Francaise, e secondo alcuni studiosi contraddistinta come una delle “Alessandrie” di Oriente. Probabilmente essa non è l’Alexandria Oxiana dei documenti trovati, però sicuramente è una città che, fondata quasi certamente dopo il passaggio di Alessandro Magno, ha in sé tutti i più considerevoli richiami identitari della società greca: il teatro, il ginnasio, il tempio dell’eroe fondatore, con una entità di strutture a stampo greco.
Tillja Tepe, “la collina dell’oro”, un monticolo archeologico in Battriana, vicino il centro di Chebergan, è stato portato alla luce dal 1969 al 1979 da una missione archeologica sovietica e afgana presieduta da Victor I Sarianidi, 1929-2013. Il posto era stato abitato dalla seconda metà del II millennio a.C. sino all’età storica. Gli archeologi, portarono in superficie, sulla cima del colle, una residenza grandiosa, principesca, edificata su piattaforme in crudo. Nell’ultima campagna, fra il 1978 e il 1979, scavando fu scoperta una necropoli reale, probabilmente ospitava le spoglie di un ramo dei sovrani Yueh-Chi, gli antenati dei futuri re Kushana, esistito nel I secolo a.C.. Le salme, sepolte in sobri feretri lignei, erano state rivestite di strati di ricche stoffe trapunte di lastre ornamentali d’oro; erano presenti: fibbie, pettorali, corone, piatti, foderi di daghe in oro, decorati da forme umane e animali, e intarsiate di perle, turchese e lapislazzuli. Ogni tomba aveva all’interno da 2500 a 4000 manufatti, complessivamente 20000 reperti in oro.
Nel 1922, ancora la DAFA, scopre il sito buddista di Hadda, vicino all’attuale Jalalabad, una delle zone di pellegrinaggio più note dell’ecumene buddhista antica, in cui si credeva fossero custodite le adoratissime reliquie del Buddha storico, sia corporali sia simboliche, un frammento del cranio, un globo oculare, la veste e il bastone ascetico che gli erano appartenuti. Poi, il sito urbano di Begram, dai cui livelli Kushana si ha uno stupefacente tesoro nascosto in una stanza murata, formato da avori indiani, vetri alessandrini, lacche cinesi, che nella loro totalità rivelano ricchezza, scambi commerciali e culturali e la presenza di un collezionismo colto di livello internazionale, e tanti altri.
Vorrei menzionare anche Surk Kotal, monumentale tempio Kushana, dedicato sicuramente alla “Vittoria di Kanishka”, il più famoso e commemorato fra i sovrani Kushana. Per dare al tempio rilevanza molto più grande, la parte orientale del colle fu sbancata e mutata in una grandiosa scala di entrata che portava al tempio sulla cima. Vengono da esso i resti di sculture rappresentanti i sovrani, tra cui quella conservata in modo migliore, ma sfortunatamente acefala, la statua di Kanishka stesso.
Il Museo di Kabul, in parte abbattuto da un razzo nel 1993, è stato molte volte danneggiato e vandalizzato. Non riguardò solamente un selvaggio deturpamento, tanti oggetti molto preziosi, come per esempio il piede di “Zeus” da Ai Khanum o preziosi marmi islamici da Ghazni, furono esportati dal Paese e andarono in collezioni private addirittura museali. Molti di questi manufatti sono stati riconsegnati, altri finiti in frammenti, come la celebre statua in pietra di Kanishka da Surkh Kotal o il bodhisattva in argilla da Tepe Maranjan, sono stati meticolosamente ripristinati, senza però avere la certezza di quanto è stato realmente strappato al patrimonio culturale dell’Afghanistan.
A 8 kilometri a sud di Jalalabad, sono ubicati i resti del centro monastico di Hadda, che ancora nel VII secolo d.C., veniva visitato dai viaggiatori cinesi; nel passato, infatti, un suo stupa, opera architettonica devozionale buddhista, aveva reliquie del cranio di Buddha. Nel 1923, dalle rovine furono dissotterrate 23000 sculture, condotte al Museo di Kabul, e in parte disperse. Le sculture di Hadda, V-VII secolo d.C., sono essenzialmente in stucco e rivestivano gli esterni degli stupa; riproducevano il Bhuddha, i Bodhisattva (creature illuminate), i devoti, le scene della vita e i miracoli di Buddha.
Tantissime sono state in Afghanistan le operazioni di ripristino e conservazione del patrimonio, supportate da innumerevoli progetti internazionali, considerando che attualmente si è creata un’intensa abilità tecnica locale, sostenuta da programmi e formazione con la presenza anche dell’Italia in prima linea, con l’attività dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro. Nel complesso, quasi certamente, l’apporto più grande alla conservazione del patrimonio artistico afgano si è avuto dall’Aga Khan Trust for Culture, che ha realizzato un programma molto incisivo di restauro dei beni culturali, oltre 200 le operazioni compiute, sempre collegando al suo intervento una rilevante opera di sviluppo sociale ed economica delle comunità locali. Oltre a ciò, negli ultimi anni sono stati ripristinati molteplici musei, che determinano la fase iniziale di una infrastruttura culturale nazionale.
Il più significativo di essi, il Museo Nazionale di Kabul, che appunto venne totalmente distrutto lungo i venti anni di guerra che anticiparono l’arrivo delle forze militari internazionali guidate dagli americani. Ma le sue preziose collezioni, furono messe in salvo e sopravvissero in virtù di un’idea attuata con il pericolo di morire, dai dirigenti del museo, che celarono i manufatti artistici in posti che i talebani non riuscirono a scoprire.
In un tempo, speriamo non lontano, ci auguriamo che l’Afghanistan potrà reclamare il suo passato, anzi, i suoi svariati passati e potrà beneficiare di una ricchezza per tutti. Perciò dobbiamo salvaguardare il suo ricordo e riconsegnare ad esso i suoi contenuti e valori.