Il velo: una questione controversa

 veloL’Annunciata di Palermo è un dipinto olio su tavola di Antonello da Messina, realizzato intorno al 1476 e conservato a palazzo Abatellis a Palermo. Considerata uno dei massimi capolavori del Rinascimento, colpisce  l’occhio dell’osservatore anche per un particolare spesso tralasciato: il velo cristiano, che avvolge il sublime volto della Vergine Maria. Eppure oggi, quando un italiano si trova a giudicare una donna velata che gli cammina accanto per strada, ha una reazione che tende più verso l’intolleranza che la comprensione. Paradossalmente, siamo più noi occidentali a porci il problema dell’assurdità del velo per le donne musulmane nel 2014, che le donne musulmane stesse. La polemica dalle nostre parti si è molto affievolita, ma tutti voi ricorderete come, fino a qualche anno fa, l’ ”oggetto velo” era legato necessariamente a quello di sottomissione femminile ed equivalente privazione dei diritti umani. Probabilmente molte sono le fanciulle che in un paese come l’Iran, in cui esso è obbligatorio, vorrebbero camminare per strada sentendo la piacevole freschezza del vento che attraversa e spettina le loro capigliature durante le giornate più torride dell’anno. Tuttavia, quando si parla direttamente con qualcuna di loro, si scopre una realtà leggermente diversa da quella che siamo abituate a considerare. “Nessuno nega che starei meglio senza, ma chi ve l’ha detto a voi che quello è il primo problema da risolvere per le donne iraniane. Ce ne sarebbero altri prima”, queste le parole di una giovane e bella fanciulla nata a Teheran, ma residente in Italia. Qualcun’altra, tra un sorriso e l’altro, afferma: “Il velo è utilissimo. Ripara dallo smog e protegge i capelli”. Dove sta la verità? Risposta: non esiste, o meglio non ne può esistere una, unica. Ogni donna avrà evidentemente la sua opinione personale sull’argomento, che va rispettata e prima di tutto ascoltata. L’imposizione o al contrario la proibizione di dovere/potere indossare il velo sono entrambe ipotesi sbagliate, perché estreme. In un paese come l’Egitto non è infatti impossibile trovare nella stessa famiglia una madre che non mette minimamente in dubbio la sua scelta di coprire il capo e una figlia che, al contrario, sceglie di non portarlo. Due generazioni, due idee, due punti di vista, che però convivono nello stesso momento storico. Non sono troppo lontani i tempi in cui anche in Italia molte donne entravano in Chiesa tirando fuori dalla borsa il velo che indossavano durante la funzione religiosa. Immaginate se in quel momento qualcuno glielo avesse strappato via con forza dalla loro testa. Ma ragionando in maniera ancora più estrema, immaginate se oggi qualcuno vietasse a una suora di coprire la sua chioma. Sarebbe un vero trauma. Forse questo è quello che provarono le donne iraniane nel 1936 quando Reza Shah, primo sovrano della dinastia Pahlavi, vietò il velo, che poi fu reintrodotto nel 1980 in seguito alla Rivoluzione Islamica. Che si tratti del ciador iraniano (velo che copre la donna da capo a piedi, generalmente nero), del niqab (velo che copre l’intero corpo della donna, compreso il volto, lasciando scoperti solo gli occhi), del burqa integrale afghano (considerato più un abito che un copricapo) o del  rusarì (foulard che copre i capelli, obbligatorio per strada), bisogna ammettere che non parliamo di tradizioni prettamente religiose, ma anche culturali. Le donne hanno iniziato a coprire il loro capo ben prima dell’avvento dell’Islam. Lo stesso termine con cui si indica il velo, hijàb (lett. copertura, cortina), era adoperato già in epoca preislamica nelle società mediorientali per marcare lo stato sociale della donna. Come spiega l’arabista Lidia Verdoliva: “La donna dei ceti superiori lo indossava per proteggersi dagli sguardi del popolo, mentre alla serva non era permesso tale privilegio. Con l’avvento dell’Islam, in base a quanto stabilito dalla shari’ah, è stato prescritto alle donne di mostrarsi in pubblico coperte da abiti che non mettano in evidenza le forme e che lascino scoperti solamente il volto e le mani”. Esprimersi con termini quali segregazionismo, sottomissione, relativamente a una tradizione che non è propria di un solo paese, ma di molti e che fa riferimento ad una realtà caleidoscopica, potrebbe essere un’azione molto ambiziosa e non necessariamente corretta. Il fatto che poi in Italia la questione del velo sia entrata anche nel dibattito politico, portando alcune parlamentari a fare propria la causa, dichiarando una sorta di “guerra al velo”, non è certamente l’atteggiamento più genuino per tentare di comprendere ciò che, paradossalmente, pretendiamo di conoscere e criticare a priori.

Silvia Di Pasquale

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