Lo incontro nella mia galleria d’arte romana preferita, l’Ulisse, in via Capo Le Case, e, a prima vista, mi ricorda uno studente modello del mio vecchio liceo classico: alto, magro, vestito sobriamente, no orecchini e no tatuaggi. Gironzola osservando le opere di altri autori presenti in galleria, da Attardi a Dorazio, da Matta a Schifano… Mi viene presentato da Carlo Ciccarelli, illuminato gallerista e talent scout di tanti artisti affermati, e mi rivela essere l’autore di un’opera esposta lì, a parete. La sua composizione è interessante, sia dal punto di vista materico che intellettuale. Promette bene, Roberto Maria Lino.
Che cosa è l’arte per te?
“L’arte per me è il mezzo con il quale riesco ad esprimere ciò che provo e ha una valenza terapeutica, in quanto mi permette di elaborare il mio passato, il mio vissuto”.
Quando hai incontrato l’arte?
“Da quando ne ho memoria. Fin da piccolissimo vivevo con la matita sempre in mano. Disegnavo di tutto, dagli scarabocchi ossessivi sulla Sirenetta (il cartone animato), a tutto quello che mi circondava. Una particolarità che incuriosiva tutti era il modo in cui disegnavo i volti: con un solo occhio. Fogli e fogli di disegni con delle sorte di ciclopi. Ricordo ancora quando mio padre mi portò a una mostra su Modigliani; mi fece notare come caratteristica dell’artista i colli molto lunghi e io, prontamente, risposi: la mia particolarità allora sarà disegnare sempre un solo occhio”.
Quali sono le tue esperienze nel mondo dell’arte?
“Le prime esperienze sono iniziate durante gli anni del liceo classico, quando le tele erano una via di fuga dalla realtà. Partecipavo sporadicamente a concorsi e la vera svolta l’ho avuta con l’inizio dell’Accademia di belle arti di Roma nel 2015. Attualmente, concluso il percorso accademico, sto esponendo presso la Galleria Ulisse, in Via Capo Le Case 32, a Roma”
Quanto c’è di autobiografico nelle tue tele?
“Moltissimo. Il mio desiderio più grande è quello di intrappolare nelle tele e nelle performance il mio vissuto più intimo e privato, cercando di dare allo spettatore la possibilità di immedesimarsi. Ogni serie pittorica si lega a un periodo preciso della mia vita, a un familiare o a esperienze personali. A esempio la serie “Registro Operatorio”, nata da vecchi registri operatori poi intelati, si basa su infiniti e ossessivi autoritratti non troppo caratterizzati”.
Quale è la tua tecnica preferita?
“Al momento cucire. La mia ultima serie intitolata “Sutura”, nata nel dicembre 2019, consiste in tele astratte composte da camici operatori di mio padre, uniti a mie vecchie magliette tramite l’ago e il filo di mia madre. Una serie per me estremamente personale, che ritrova una manualità lenta e angosciante, e che ultimamente riempie le mie giornate. Punto per punto vado a creare un nuovo mondo bidimensionale dove lego il mio passato al mio presente. Mi affascina anche la liaison involontaria che si è creata tra “Sutura” e il periodo storico che stiamo vivendo da marzo 2020″.
Mi sembra che il rosso sia il tuo colore preferito: perché, se è così?
“Il rosso è in assoluto il mio colore preferito. Ho dedicato al colore le mie tesi accademiche e rappresenta il mio faro. Il rosso è sempre stato presente nella mia vita; in alcuni momenti in modo silenzioso, in altri arrogante. Ricco di dualità, di contrasti e di significati, il rosso è la piena rappresentazione dei miei pensieri, dei miei sentimenti. L’ossessione verso il rosso non nasce dal piacere che provo per questo colore o dal semplice fascino che esso scaturisce in me. Il rosso mi è stato imposto. La sua prima imposizione è stata attraverso mio padre che, essendo cardiochirurgo, già dai miei quattro anni era solito portarmi in sala operatoria insieme a lui. La prima volta in quella sala fu un trauma profondo. Un trauma causato dalla delusione di un cuore che non aveva la forma che immaginavo, non era il cuore che mi avevano sempre disegnato sui fogli, con quelle due piccole curve unite da angoli decisi. Era un cuore reale, tridimensionale. Il cuore era un cuore. Non so se il rosso abbia scelto me o io abbia scelto il rosso, ma c’è stata una scelta ed è questo quello che basta. Il rosso, quindi, è per me la cura, il vivere bene nel mondo”.
Quale è il messaggio delle tue opere?
“Una delle tematiche centrali del mio lavoro è rappresentata dai complessi rapporti familiari, in particolare sviscero quello tra padre e figlio.
Il complicato rapporto nasce sia dalla diversità assoluta dei caratteri che dalla divergenza di aspettative fra me e lui.
Il messaggio che vorrei trasparisse dalle mie opere è quello di rinascita. Riuscire ad abbracciare i propri traumi o le proprie difficoltà per trasformale in pregi, in punti di forza”
Pur se giovanissimo, cosa pensi del mercato dell’arte?
“Che è molto difficile entrarci e ricevere fiducia”.
Che cosa ti ha dato l’Accademia di Belle Arti e che cosa non ti ha dato?
“L’accademia mi ha dato tanto. Mi ritengo fortunato per il mio percorso fatto in questi anni. Ho conosciuti professori e professoresse che mi hanno aiutato molto a livello pratico e di pensiero. Lo scambio di idee, di contrasti porta sempre a un qualcosa di costruttivo e di utile. Senza l’accademia non avrei messo a fuoco i miei obiettivi, e non avrei avuto la possibilità di mettere alla prova il mio pensiero con tutte le diverse materie”.
Nel lockdown vedi una perdita o un’opportunità, per quella che è la tua professione?
“Non è facile definire il lockdown, è stato pieno di contrasti. Da un lato la lontananza degli affetti, il seguire i corsi accademici in remoto, i progetti messi in stand by, dall’altro non ho mai prodotto tante opere quanto nel 2020, ho collaborato con un nuovo brand di moda Ardusse, creando delle grafiche che hanno debuttato alla Milano Fashion Week. Bisogna sempre trovare il lato positivo”.
Quale è il tuo artista preferito del passato? E il movimento?
“Al momento i tre artisti del 900 ai quali sono più affezionato sono Cy Twombly, Alberto Burri e Nuvolo. Trovo magici i tre artisti nei loro modi di affrontare l’astratto. Inoltre, anche l’arte povera mi affascina molto in quanto personalmente sono ossessionato dal riportare dignità ad oggetti di riciclo, materiali di scarto. Quasi tutto ciò che viene da me intelaiato, inizialmente era in cantina o tra gli armadi e bauli di casa”.
Figurativo, astratto o…altro?
“Al momento astratto, ma l’anatomia mi affascina sempre molto”.
Quanto è stata importante la famiglia nella tua scelta professionale?
“Abbastanza. Da quando sono nato pensavo di dover fare il medico, fino ai diciotto anni ero sicuro di non avere scelta. L’ultimo anno del liceo però qualcosa si è mosso. Ricordo ancora una telefonata con mia nonna, decisiva per il mio percorso, che si concluse con un “devi fare quello che ti fa stare davvero bene”. Nel 2021 posso dire con leggerezza che mi sento supportato a pieno dalla mia famiglia nella mia scelta di vita”.
Quale è il tuo sogno nel cassetto?
“Vivere di ciò che amo, della mia arte”.