“Quando qualcosa è gratis, il prodotto sei tu”

Come fanno Facebook, Instagram, Tik Tok, Google, a fatturare milioni di dollari nonostante siano servizi gratuiti?
Tutti conoscono il meccanismo delle inserzioni pubblicitarie: queste piattaforme vendono spazi pubblicitari per le aziende in cerca di visibilità. Ma come hanno fatto, concretamente, a rientrare fra le aziende con il fatturato annuale più alto nella storia dell umanità?
(70,7 miliardi per facebook, 136,81 miliardi per google) Oltre all’ ovvia elusione delle tasse tramite delocalizzazione, la loro forza si basa sulla certezza, che una volta pubblicizzato un prodotto, questo venderà. La potenza e l’affidabilità di queste piattaforme deriva dalla qualità delle loro previsioni. I modelli che riescono a generare non si limitano a prevedere cosa potrebbe piacere agli utenti, ma scavano ad un livello molto più profondo. Sorvegliano ed immagazzinano tutte le azioni che ogni utente svolge giornalmente, per poter elaborare e studiare profili psicologici sempre più accurati. Sono in grado di dedurre il loro stato emotivo, il perchè fanno una determinata azione oggi e sulla base di queste informazioni riescono a predire anche come staranno , cosa faranno domani.
Esiste anche l’incapacità di queste aziende, che sono a tutti gli effetti veicoli di informazione, di limitare le fake news. Secondo un ex collaboratore di google, Tristan Harris, queste ultime viaggiano 6 volte più veloci di una notizia vera. Quindi perché sprecare energie a risolvere una dinamica che crea più traffico e quindi più introiti?
Dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, che ha portato Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, davanti ad una corte per problemi legati alla privacy, è sotto gli occhi di tutti un’altro fattore: sono in grado di manipolare l’opinione pubblica e addirittura di influenzare le elezioni. Gli effetti sono evidenti: i sistemi democratici sono fragili, polarizzati, si è persa la capacità di comunicare ed è sempre più difficile instaurare un dibattito costruttivo.
Nel documentario “The Social Dilemma” prodotto da Netflix, Jaron lanier, informatico, compositore e saggista statunitense, afferma che: “Abbiamo creato un’intera generazione di persone cresciute in un contesto dove il significato intimo della parola comunicazione è legato al concetto di manipolazione.” le menti più brillanti del mondo svolgono ricerche e test per capire come rendere più efficace e persuasivo il meccanismo dei social media. Non c’è da stupirsi se uno strumento in grado di amplificare la ragione biologica ed esistenziale su cui si fonda l’essere umano abbia la capacità di tradursi in dipendenza. Fra i sistemi utilizzati spicca il “rinforzo positivo intermittente”. Grazie ad una montagna russa di emozioni generata da notifiche, tag e richieste di amicizia, ogni volta che l’utente guarda il proprio dispositivo sente il bisogno di controllare, per riceve un’altra “dose” di dopamina.

La comunità scientifica si è interessata al tema in più occasioni, indagando gli effetti di queste piattaforme sulla psiche degli utenti. Nel 2016, uno studio svolto dal dipartimento di psicologia della Stony Brook University, mette in relazione la bassa qualità di interazioni on-line con sintomi di depressione come bassa autostima, difficoltà nella concentrazione, senso di fatica.Nel 2011, La Nottingham Trent University ha analizzato 43 studi che indagavano la gravità della dipendenza da social media e conclude che, quando  essa si verifica, andrebbe tratta da personale esperto.

Si è scoperto anche che da quando le generazioni più giovani hanno cominciato ad usare i social c’è stato un incremento dell’ansia, di abbandoni scolastici, di suicidi.

In pochi hanno collegato questi fatti all’abuso dei social media, e finchè questo non verrà riconosciuto come problema dall’opinione pubblica le istituzioni non lo prenderanno sul serio.
Perchè ormai questo è diventato: un problema.

Foto di Manuel Grande

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