Omologazione idiomatica

La lingua, si sa, è viva. Le parole si adattano ai tempi, rappresentano le idee e, come queste, si evolvono, si modificano e vestono nuovi significati.

Anche la modalità di espressione muta e, mai come in tempi recenti, assistiamo ad una veloce trasformazione dei mezzi di comunicazione e del loro linguaggio.

Si stima che, mediamente, l’uso del lessico fondamentale raggiunga appena l’1,6% delle parole esistenti (6.500 vocaboli su 120.000). Di questo tengono conto esperti di comunicazione che, a vario titolo, devono interagire con le masse.

La lingua, poi, subisce le influenze culturali parallele alla Storia del popolo che la parla. Domini e alleanze hanno introdotto diversi termini, poi inclusi nell’idioma, talvolta con assonanze o storpiature, spesso adottati nei dialetti locali.

L’italiano, oltre che le radici latine, contiene numerosi elementi provenienti da altre lingue, che vanno sotto il nome generico di prestiti e calchi linguistici. Oltre 1.500 termini serbano etimologie germaniche, quasi 3.500 grecismi, spesso già presenti nella lingua latina dei Romani, oltre alle quasi 200 espressioni latine ancora in uso nell’italiano corrente e da altre lingue antiche (tra le quali l’ebraico, il persiano, l’arabo e il sanscrito) e moderne (iberismi, anglicismi, francesismi).

A ciò aggiungasi la declinazione della lingua, a seconda del contesto in cui viene usata.

Al linguaggio parlato, il cui lessico semplificato e ridotto, assume sfumature differenti tra il linguaggio colloquiale, gergale, familiare e popolare, si contrappone il linguaggio formale, che assume tecnicismi e specificità dell’ambito di esercizio. Il linguaggio aulico, tecnico-scientifico, burocratico, legale, medico, letterario sono tutti esempi di lingua esistente, ma poco avvezza e comprensibile al di fuori degli utilizzatori.

Per porre la questione nei giusti termini va chiarito che più che l’impianto lessicale nella sua complessità, assume valore il vocabolario “base”, composto dall’insieme delle parole effettivamente usate e conosciute dalla totalità dei parlanti.

Ed in questo gioca un ruolo fondamentale la scuola e l’alfabetizzazione, nonché la qualità della comunicazione di massa, che passa da molteplici canali e forme.

Le coeve pulsioni per la predilezione dello studio e utilizzo della lingua inglese, quale esperanto cognitivo universale, fa discutere i cultori della lingua ed è oggetto di ripensamento anche da parte del mondo accademico e intellettuale.

Il rischio serio, nell’accettare i termini stranieri in sostituzione di una analoga parola domestica, è di impoverire il lessico ospitante, creando una sorta di sudditanza culturale ed un appiattimento dell’idioma.

Termini tecnici di importazione non sono nuovi nella storia. L’ingegno di Leonardo o Galileo hanno coniato nuovi termini, tradotti e fatti propri nel mondo conosciuto, costituendo un arricchimento della semantica e della immaginazione dei vari popoli.

L’omologazione cui stiamo assistendo, passa per il linguaggio, ma si appropria dei metodi di studio ed insegnamento, uniforma la cultura, per aprire la strada ad una standardizzazione della vita sociale, politica ed ideologica. L’imperialismo occidentale, tanto avversato e controllato nel dopoguerra, sta spadroneggiando per mezzo della globalizzazione falsamente egalitaria, molto meschinamente economica ed, ancora peggio, finanziaria. Non si può estendere la logica dei mercati alla cultura.

Le parole, con il loro bagaglio di storie e luoghi, regalano lo stupore della scoperta, la gioia della condivisione, la curiosità nell’applicazione. Le parole sono tracce, superano il tempo e permettono di confrontare passato, presente e futuro con la magia del suono, del loro tratto.

Perdersi tra le pagine di un dizionario regala un viaggio di usi e di costumi che restituisce il valore e la bellezza della nostra lingua, da sempre fucina e crogiuolo di culture diverse.

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