Il tie-break che avrebbe dovuto durare per sempre.Il tennis attraverso gli occhi di Björn Borg

È il 6 luglio del 1980 e siamo a Londra, più precisamente a Wimbledon, sul campo centrale del Old England Club, il circolo tennistico più famoso del mondo, il tempio del tennis, che decreta l’immortalità in questo sport.Borg Sta iniziando il tie-break e alla risposta c’è un giovane dai capelli lunghi e biondi, come gli eroi della mitologia scandinava, nei suoi occhi non si legge alcuna emozione. Il pubblico al campo e davanti alle televisioni ha un sospetto: pensa che quel giovane non stia provando alcuna emozione. Lo conoscono bene e credono che sia una specie di robot di ghiaccio, da quando lo hanno visto comparire per la prima volta sui campi, con un orribile rovescio a due mani e un dritto arrangiato dal basso verso l’alto. Quello strano “essere” ha stravolto per sempre il gioco che amano. Erano abituati a Laver e Ashe, gentiluomini con la racchetta oppure a Nastase e Connors, ribelli ma dotati di grande talento. Questo biondino, invece, non fa altro che palleggiare rimandando indietro la pallina e basta. Sì, ma è in grado di farlo per ore consecutivamente e senza mai stancarsi; inoltre non lo si è mai visto discutere con un arbitro o rispondere a una provocazione, sta sempre lì, tutto serio, con lo sguardo perso a frantumare i sogni di tutti i campioni dalla classe cristallina. Il capellone con la fascia, che ha stravolto il tennis, è Björn Borg e ha 24 anni ma un palmarès eccezionale perché ha già vinto nove titoli dello slam e a Wimbledon (in teoria il torneo meno adatto alle sue qualità) ha una striscia di 34 successi consecutivi e 4 vittorie nelle precedenti 4 edizioni. Dopo di lui il tennis cambierà sempre di più ma gli spettatori non lo sanno ancora, per loro quell’alieno è un’eccezione che non porterà alcuna modifica allo sport che adorano. Dall’altra parte c’è John McEnroe, che rappresenta l’umanità dotata di talento e capace di litigare mezz’ora con l’arbitro, contro l’impassibilità di quell’uomo-macchina, sempre controllato e concentrato. Il giovane umano sta per compiere il miracolo, se vince quel set porterà il campione imbattibile al quinto, dove tutto potrà succedere. La gente comincia a pensare che ci sia una speranza per gli uomini e s’incolla alle proprie poltrone per assistere all’evento. Sul dieci a undici per lo svedese il rovescio di McEnroe scivola sul nastro della rete e cade dolcemente nel campo di Borg, riportandoli in parità. Che cosa starà pensando, in quel momento, il robot alieno? Apparentemente nulla, visto il suo sguardo e il passo solito con il quale guadagna il fondo campo. Ma Borg, naturalmente, è un uomo e come tutti prova emozioni e sentimenti, in quel momento si trova di fronte ad una sensazione che da molto tempo non provava, forse non la riconosce subito e forse ne è spaventato. Resta concentrato, perché la sua cultura e il suo carattere non gli permettono di fare altro, ma dentro di lui qualcosa sta cambiando definitivamente. La parità continua inesorabile e i cronisti cominciano a parlare di tie-break infinito e inizia a farsi strada la parola leggendario. McEnroe butta fuori una volée che darebbe la vittoria a Borg, ma l’arbitro fa ripetere perché il punto è stato disturbato dal rumore del pubblico; qualunque giocatore sarebbe uscito di testa, compreso l’americano, ma non Björn, che non batte ciglio nemmeno quando, alla fine, l’avversario si aggiudica il tie-break e lo porta al quinto set. L’ultimo punto è indicativo: Borg tenta una volée stoppata, molto difficile e non certo usuale nel suo repertorio, forse in quel momento l’emozione ha preso il sopravvento, controllando le decisioni e i movimenti del campione, come accade per qualunque mortale. Ma il robot riprende il controllo, ricomincia a buttare al di là della rete tutte le palline possibili e anche quelle impossibili, vince il quinto set e si conferma campione di Wimbledon, numero uno del ranking e, agli occhi di tutti, l’atleta di ghiaccio che è sempre stato. Eppure qualcosa è cambiato in lui, è subentrata la paura di non essere il più forte, di scoprire che, nonostante il suo gioco, gli allenamenti e l’applicazione in campo, ci può essere qualcuno più forte di lui. Quel ragazzino americano gli ha dimostrato che può batterlo nonostante tutti i suoi sforzi e anche se esprime il suo miglior tennis. Certo, è già stato sconfitto in passato ma in lui è rimasta la sensazione che, se fosse stato al meglio, quegli incontri non li avrebbe persi invece, questa volta, ha dato il massimo eppure ha seriamente rischiato di perdere. La paura di non essere il migliore lo avrebbe portato a ritirarsi di lì a due anni, a sperperare il denaro guadagnato e tentare il suicidio, a cercare di vendere i suoi trofei all’asta, anche se in quel momento lui non lo sa. Proprio come la gente non sospetta che, in quell’istante, l’uomo ha preso il sopravvento sul robot e che quel tie-break ha aperto una nuova fase della vita del campione diventando il più importante della storia.

 

Patrizio Pitzalis

 

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