Stiamo vivendo un momento non facile nel nostro Paese e, a dirla tutta, questo momento dura da quasi 70 anni, da quando l’Italia si è liberata dall’odioso giogo fascista e con un atto di vera civiltà si è data un’organizzazione repubblicana e una Costituzione. Da allora le cose sono precipitate più o meno velocemente verso un abisso morale, politico e istituzionale, che sembra davvero non avere fondo. I pochi uomini che si sono sollevati a illuminare le tenebre sono stati zittiti, spesso con violenza. Così, di fronte all’ennesimo scandalo inaccettabile, che ha sconvolto la politica nella capitale e ha rivelato immondi rapporti d’affari tra malavita, finanza e istituzioni, la reazione di tutti è di ribrezzo, sfiducia e tradimento. Per un classicista, come me, questi legittimi pensieri si sovrappongono al ricordo del passato, e la mente vola a centinaia di anni fa, quando un uomo politico pronunciò un discorso di fronte agli abitanti della sua città, per confortarli e incoraggiarli nel momento della difficoltà. Tale è l’importanza di quel discorso da aver influenzato il pensiero occidentale e, cosa ancora più straordinaria, aver sortito l’effetto sperato. I concittadini di quell’uomo si sono davvero sollevati perché tutti, senza distinzione, credevano a quelle parole e a quegli ideali. Parlo, naturalmente, del discorso di Pericle agli Ateniesi, pronunciato nel 461 a.C., in piena guerra del Peloponneso. In realtà il discorso non è stato realmente proferito ma è un’invenzione letteraria di Tucidide, uno storico che apparteneva al partito contrario a quello di Pericle, ma che riconosceva nello Stato il bene supremo e nel lavoro del tiranno le caratteristiche del buon governo. Già qui siamo lontanissimi dal presente. Come un inesorabile racconto della barbarie in cui siamo precipitati, Pericle descrive la città ai suoi ascoltatori, rilevando con orgoglio che loro, ad Atene, si comportano in quel modo. Afferma che il governo della polis favorisce la maggioranza e non una minoranza privilegiata, la legge è giusta nei confronti di tutti e non ignora, comunque, i meriti; chi si distingue per valore e qualità viene chiamato a governare, come ricompensa per quelli, essere nato povero non costituisce un impedimento al giusto premio; i cittadini vivono in pace tra loro, rispettando la libertà del prossimo ma sempre pronti a difendersi l’uno con l’altro di fronte al pericolo, non trascurano la vita pubblica, quando attendono alle loro cose private ma, soprattutto, non si occupano di cose pubbliche per sistemate le faccende private (il cuore di ogni onesto cittadino moderno sanguina a queste parole); a loro è stato insegnato a rispettare i magistrati e le leggi, sia quelle dello Stato sia quelle della morale e del buon senso; un uomo che non si occupa dello Stato lo considerano inutile e non innocuo, perché tutti sanno giudicare una politica e la discussione per loro non costituisce un ostacolo; ogni Ateniese cresce imparando che la felicità e frutto della libertà, che deriva dal valore, per questo sa affrontare ogni situazione con grande fiducia in se stesso e la sua città è aperta a tutti e nessuno straniero viene cacciato. Sfido qualunque persona per bene e civile a non piangere a queste parole, non tanto (purtroppo) per la bellezza e la fierezza che contengono, ma per la nostalgia di un tempo che chiamiamo stupidamente passato, considerandoci evoluti e progrediti quando, in realtà, il pozzo oscuro nel quale siamo caduti nei secoli sembra averci inghiottiti per sempre. Dov’è il progresso? In cosa siamo migliori degli Ateniesi? Piuttosto dovremmo chiederci cos’è successo all’umanità, che si è allontanata inesorabilmente da quegli uomini davvero liberi.