Manduria, non solo cronaca.

MANDURIA – Tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravato, sono i reati di cui vengono accusati gli otto ragazzi (sei dei quali minorenni), sottoposti a fermo per aver fatto parte della banda che ha bullizzato il sessantaseienne di Manduria Antonio Stano, fino a condurlo alla morte il 23 aprile scorso.

I decreti di fermo sono stati firmati al termine delle indagini della squadra mobile di Taranto e del commissariato di Manduria, coordinate dal procuratore della Repubblica, Carlo Maria Capristo, e dalla procuratrice dei minori Pina Montanaro. In tutto sono quattordici gli indagati per le incursioni, perpetrate per anni, nella casa in via San Gregorio Magno, dove l’uomo è stato trovato in condizioni disperate il 6 aprile scorso, durante un intervento della polizia, sollecitato da una denuncia dei vicini, che avevano avuto notizia delle aggressioni. Troppo tardi, troppo vile il loro comportamento, troppo difficile capire perché non si siano mossi prima. O viceversa, troppo facile.

La prima domanda che si sono posti a Manduria, è stata quella tipica di una cittadina dove ci si conosce tutti, ossia “a chi fossero figli” i carnefici. Ma lo sgomento nell’apprendere i cognomi di alcune delle famiglie di appartenenza, è stato, se possibile, maggiore, dell’assistere ad una violenza così folle. Si parla di famiglie di varie estrazioni sociali, con background differenti. Da una parte gente in apparenza normale, lavoratori, genitori come tanti. Madri e padri che tranquilli lasciano uscire i propri figli adolescenti magari limitandosi a chiedere l’orario di rientro, probabilmente ignari della sregolatezza di vita che conducono i loro ragazzi fuori dalle mura domestiche. Dall’altra famiglie border line, con un passato pesante fatto in alcuni casi di galera, di violenze famigliari, di suicidi. Un omicidio te l’aspetti da chi è nato in determinati ambienti, dal figlio del boss, dal delinquente. Ma uno studente che non ha trovato niente di meglio da fare che mescolarsi a coetanei scapestrati, per trascorrere i suoi pomeriggi a vessare un povero disabile, non riesci a giustificarlo. Vittime di altre vittime anche loro, ma nel senso più negativo del termine. Vittime della disattenzione tipica dei nostri tempi che delega ad un cellulare la vita di un figlio, da una parte. Vittime di gente che non riesce a badare neppure a se stessa, ma continua a mettere al mondo altri sventurati, dall’altra. Eppure qualche madre ha tentato di fare appello ad un tardivo quanto innato senso di protezione che, più che aiutare, continua a distruggere l’individuo procreato, tirandosi altresì addosso l’ira motivata di tutti gli indignati del paese e del resto d’Italia. L’omicidio non ha mai ragion d’essere, non può essere giustificato. Men che meno, si può arrivare ad ammazzare un uomo per placare la noia. Allo stesso modo non si può assistere impotenti e impuniti a tutto ciò che ci accade intorno come se fossimo dietro ad una tastiera. Pronti a cliccare sul video dei ragazzacci che picchiano un povero cristo. Non siamo stati creati per mettere un “mi piace”, questa è la vita vera, fatta di persone reali e di emozioni che non possono limitarsi alle faccine con le quali commentiamo un post. Dove erano i vicini di casa in questi anni, chi si nascondeva dietro quelle persiane semiaperte tipiche del Sud Italia dove tutti sanno tutto, ma nessuno parla? Quante sono, poi, le denunce tardive che arrivano nei commissariati, solo quando chi ha assistito è stanco di sentire le grida e gli schiamazzi, se non addirittura quando teme di poter essere coinvolto a qualche titolo negli accadimenti? Su questo occorrerebbe indagare. E magari anche sulle forze dell’ordine che i cosiddetti “pazzi del paese” li conoscono come e meglio di altri. Su chi ha ucciso materialmente e chi con il suo silenzio colpevole. Eppure oggi, è facile puntare il dito, dice qualcuno. Prevenire è meglio che curare, in tutti i campi. Dovrebbe esserlo. Vigliare, intervenire, fare. Quanti verbi potremmo citare per indicare la via da seguire affinché non ci sia un altro Antonio Stano che, a differenza di quanto hanno riportato alcune testate, non era un anziano. Era semplicemente un uomo solo, ma aveva ancora una vita da vivere, magari a modo suo, nel suo mondo, con i suoi limiti. Aveva sessantasei anni e non doveva morire. I colpevoli non sono quattordici. Sono molti di più.

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