Rileggere la Banalità del Male di Hannah Arendt dopo 50 anni

Un libro intramontabile, complesso, spesso citato a sproposito La Banalità del Male di Hannah Arendt (ed. Feltrinelli, 314 pagg.) compie 50 anni dalla sua uscita in Italia. All’inizio di quest’anno, precisamente a Gennaio mese in cui si celebra la Giornata della Memoria (il 27), esce il film di Margareth Von Trotta dedicato al lavoro di una delle più straordinarie filosofe del Novecento. Inspiegabilmente però la pellicola rimane nelle sale soltanto due giorni. Chi ha paura di Hannah Arendt e soprattutto perché? Il volume raccoglie le corrispondenze scritte dall’autrice per il New Yorker. Nel 1961 la Arendt si reca a Gerusalemme per seguire il processo al criminale nazista Otto Adolf Eichman. L’epilogo già scritto è la sua impiccagione avvenuta il 31 maggio del 1962. Due anni prima i servizi segreti israeliani lo avevano rapito e trasportato dall’Argentina – il paese nel quale lui, come altri nazisti, aveva trovato rifugio sotto falso nome – in Israele. Ed è già sulla vicenda del rapimento e dell’estradizione illegale che la Arendt muove critiche severe allo Stato ebraico. La competenza territoriale della Corte giudicante è messa in discussione dall’autrice che avrebbe auspicato, precorrendo i tempi, la creazione di un Tribunale Penale Internazionale. C’è poi la natura dei reati dell’imputato che impone l’abbandono delle categorie giuridiche tradizionali, poiché negli anni del potere di Hitler furono commessi crimini inediti rispetto al passato. La vasta opera di persecuzione/deportazione/sterminio di cittadini e di apolidi prevalentemente di confessione ebraica (ma anche rom, oppositori politici, disabili, omosessuali) fu organizzata secondo la logica del “massacro amministrativo” ad opera dello Stato totalitario. Nella ricostruzione del “quadro generale”, voluta dall’accusa, dall’allora Primo Ministro di Israele Ben Gurion e tollerata dagli stessi giudici della Corte di Gerusalemme, si decise di considerare Eichmann – come d’altra parte era accaduto ad altri nazisti durante il processo di Norimberga tra il 1945 e il 1946 – come “un sadico e un perverso”, esagerandone le responsabilità. La Harendt ricostruisce infatti la catena di comando esistente nella Germania nazista allo scopo di dimostrare come, in realtà, il grado di “tenente-colonello” non prevedesse alcuna funzione decisionale autonoma. “La verità”, scrive, “è che egli non aveva alcuna autorità per stabilire chi doveva morire e chi doveva vivere, e neppure sapeva chi sarebbe morto e chi si sarebbe salvato”. Con questo chiaramente non assolve chi si è macchiato di simili atrocità – anche perché l’imputato conosceva perfettamente la tragica sorte degli evacuati – 11111111111111111111111111111111111111111ma ci spinge a riflettere sul fatto che il potere di Hitler aveva capovolto completamente l’ordine giuridico, rendendo l’illegalità legale e viceversa. Per questa ragione, dal suo punto di vista, l’accusa andava riformulata e la Soluzione Finale interpretata come genocidio e dunque come “un crimine contro tutta l’umanità”. Nell’osservare Eichmann la Arendt sottolinea come “il guaio era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali”. Un uomo nient’affatto stupido dunque, desideroso di fare carriera nell’apparato burocratico del Terzo Reich, neanche animato (sembra incredibile) da particolari sentimenti antisemiti, tuttavia “privo di idee”, ecco il ritratto di Eichmann che emerge dalle pagine di questo libro che, all’epoca, suscitò violente accuse di antisemitismo nei suoi confronti che, in quanto ebrea, era dovuta scappare in America. La verità scomoda che viene raccontata coinvolge inoltre la collaborazione con l’autorità nazista degli stessi Consigli ebraici che stilarono le liste dei soggetti da deportare. Un aspetto sottovalutato durante il processo perché avrebbe “pregiudicato il quadro generale imperniato su una netta distinzione tra vittime e persecutori”. A distanza di qualche anno dalla fine del processo ad Eichmann la Arendt pronunziò parole sul male che vale la pena ricordare: “la mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo, perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare alle radici e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene ha profondità e può essere integrale”.

 

Pasquale Musella

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