44°lat.nord 15°long.est

 

Non vi voglio raccontare nulla dei fatti che il 10 febbraio, per legge nazionale, si vanno a ricordare. Storici, filosofi, politici sono adatti a discorrere di questo.

Desidero provare a raccontarvi cosa si provi ad essere figlia di esuli, zaratina di seconda generazione, nata a Roma, ma non romana.

Mio padre nato a Zara, città dalmata, italiana nella storia, giunse a Roma dopo l’occupazione militare titina nel dopo guerra. Roma, a differenza di altre realtà, nella sua passiva multicultura, ha saputo offrire un punto d’aggregazione agli esuli, ed i nostri vecì, con umiltà e dignità, sono riusciti ad uscire dai campi allestiti d’emergenza, ricostruire, al posto dei capannoni destinati agli operai addetti alla costruzione del nuovo quartiere EUR, un quartiere, una chiesa, una scuola, un museo, un convitto destinato agli orfani, un’associazione sportiva, un’opera per il reinserimento nella vita civile. Invito tutti a fare una visita al museo ed una passeggiata nel quartiere giuliano dalmata, vicino ad alloggi di banca, noterete, nonostante l’incuria che imperversa dal passaggio all’amministrazione capitolina, una aria diversa.

Non riesco a spiegare a chi non ha vissuto sulla propria pelle, il senso di estraneità dai luoghi e di temporaneità nella vita che si respira sin da piccoli.

Ricordi atavici, nostalgia e melanconia fanno parte del nostro sentire.

Il sottile disagio nel sentirti estraneo in Patria, ospite fuori della Patria per cui hai combattuto, per cui hai barattato la tua Terra, che hai scelto col cuore e con le armi e che ti ha accolto come traditore, che ti ha ghettizzato, deriso, rifiutato come un reietto.

Oggi, giustamente, discutiamo dell’inciviltà dei campi profughi, ma abbiamo dimenticato l’orrore dei campi d’accoglienza dedicati a chi non fuggiva il nemico, ma cui era negata la propria identità. Strutture fatiscenti, vecchie caserme o capannoni dismessi, spesso con vetri rotti, senza servizi igienici, camerate promiscue la cui intimità familiare era affidata a teli provvisori. Ci si ammalava, si moriva, di fame e di stenti. Un dolore fisico che si sommava alle ferite dell’anima. Essere costretti ad abbandonare subitaneamente la propria vita ed i propri morti, cancellare ricordi, le origini e l’identità. Questo è stato. Sapendo di non poter tornare perché non si stava combattendo una guerra, era stata presa una decisione: quella di annettere dei territori cancellando scientificamente la presenza di un popolo, l’orrore che si definisce col termine di “pulizia etnica”, agghiacciante nel suo esplicito intento. Forse solo la Shoà, che si ricorda pochi giorni prima, riesce a dare questa sensazione di impotenza e di spersonalizzazione, come se non si discutesse di morte e dolore, ma di scienza. La banalità del male, come scrive Harendt. Stessa infamia subìta, stessa offesa riproposta dal negazionismo.

Quelle parole potremmo averle scritte ognuno di noi, od almeno chi ancora sente sangue dalmata scorrere nelle vene.

Un richiamo ancestrale di pietre e di luoghi, la memoria dei ricordi ed il sottile senso di disagio dell’estraneità e temporaneità che ci accomuna…cuori raminghi destinati a restare senza patria.

Ci sono esuli, come mio padre, che non sono mai voluti tornare, poiché quelle macerie, giacenti ancora per le strade fino a pochissimi anni fa, attestavano il crollo fisico del passato e le recenti ricostruzioni nulla avevano dei ricordi d’infanzia. Saper la propria città rasa al suolo credo sia un colpo all’anima che mai si superi. Eppure qualcosa di impercettibile, non giustificabile, fa posizionare al 44° di latitudine nord ed al 15° di longitudine est, la bussola dell’anima, è un legame di cuore e di budella. Mi accorgo che, spesso, i miei viaggi non sono tanto un andare, quanto un ritorno, perché il mio vero “altrove” è qui.

Con Zara nel cuore!

 

Sabrina Cicin

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