“Quando non hai un futuro quel che ti resta è il passato e se il tuo passato è fatto di menzogne allora non esisti.” Leonard Fife
Presentato all’ultimo Festival di Cannes, il 16 gennaio 2025 arriva in sala Oh, Canada – I Tradimenti l’ultimo film diretto da Paul Schrader, lo sceneggiatore di Toro scatenato e Taxi Driver.
Distribuito da Be Water Film (la nuova società di produzione e distribuzione che ha di recente portato in sala Modì – tre giorni sulle ali della follia, il biopic su Amedeo Modigliani diretto da Johnny Depp e interpretato da Riccardo Scamarcio), in collaborazione con Medusa Film; Oh Canada! vanta un cast strepitoso, a partire da Richard Gere, legato a Schrader da un lungo rapporto non soltanto professionale, nato 45 anni fa sul set di American Gigolo, che lanciò definitivamente la sua carriera dopo I giorni del cielo di Terrence Malick. Accanto a lui, nel ruolo dello stesso personaggio da giovane, troviamo l’attore australiano, Jacob Elordi; balzato alla notorietà internazionale grazie alla serie tv Euphoria, e poi consacrato interpretando il mitico Elvis Presley in Priscilla di Sofia Coppola. Quindi, Uma Thurman, nel ruolo dell’ultima moglie del protagonista, Emma Fife.
Tratto dal romanzo I tradimenti di Russel Banks, (autore molto amato da Schrader che nel lontano 1997 adattò il suo Affliction, dramma familiare con Nick Nolte e James Coburn, che per la parte vinse l’Oscar come miglior attore non protagonista), il film racconta la storia di Leo Fife, un famoso documentarista di successo sfiancato dalla vecchiaia e da una malattia terminale, che svela a favore di camera tutta la sua vita, senza filtri. Quando sta ormai consumando gli ultimi giorni di una vita costellata di successi, riceve la visita di un gruppo di suoi ex studenti che intendono girare un documentario definitivo su di lui. Questo elemento narrativo consente a Schrader di costruire la sua drammaturgia sull’espediente della cosiddetta mise en abyme, ovvero più precisamente sul raddoppiamento metalinguistico del “film nel film”.
Così Oh Canada! si fa presto riflessione amara sui rimpianti delle cose non fatte e sui rimorsi per gli sbagli compiuti; e sul potere mistificatorio della memoria, che annebbia la mente e travisa la verità. Il cancro da cui è afflitto, e le conseguenze della pesante medicalizzazione cui è costretto (le medicine – sostiene la moglie – alterano la sua capacità intellettiva, fino a condurlo a rappresentarsi per quello che non è), unitamente alla duplicazione speculare del meccanismo drammaturgico metacinematografico di cui si è appena detto, permettono a Paul Schrader di dispiegare un teorema visivo sul tema della mistificazione della realtà, o – per meglio dire – sulla sua inesorabile
inafferrabilità, misurando tutta l’ambiguità che separa l’eroismo dalla vigliaccheria. Il “doc dentro il film” che dovrebbe sancire la grandezza definitiva del soggetto biografato (Leo Fife tiene dei seminari sulla verosimiglianza nell’arte citando Susan Sontag, e sul rapporto tra vita e sua riproducibilità tecnica elucubrando sulla celeberrima foto scattata a Saigon mentre il generale Loan fredda a bruciapelo il prigioniero Vietcong) finisce infatti per smascherarne per l’appunto i molteplici tradimenti; verso le donne che ha prima amato e poi abbandonato, e nei confronti del suo Paese che ha tradito disertando l’esercito durante la Guerra del Vietnam.
Schrader, che con American Gigolo aveva contribuito a fondare il mito sexy di Richard Gere (quante ragazze degli anni ’80 sono state conquistate dai suoi sollevamenti a torso nudo, o dalla nonchalance con cui selezionava le cravatte da abbinare agli abiti?), ci mostra qui il divo hollywoodiano ormai privo di alcun fascino: canuto, barbuto e inchiodato a una sedia a rotelle; imbruttito come non mai. Un vecchio malato che parla di anti-androgeni e feci secche e umiliato dalla mortificazione di non essere più autosufficiente. Un uomo rude e rancoroso, dietro le cui sembianze il regista cela, neanche troppo segretamente, la propria biografia; tra bilancio autobiografico e sensi di colpa, pretesa di ottenere un riscatto e consapevolezza dell’impossibilità di concederselo. Raccordandosi così ai temi-cardine della sua poetica che, come è noto, è fondata sui precetti della religione calvinista: dall’intrinseco senso del peccato cui è asservito l’essere umano alla limitazione della possibile redenzione concessa ai peccatori (che come si ricorderà si fuse magnificamente con la cultura cattolica di Martin Scorsese ai tempi di Taxi driver). Tanto che, al postutto, il film finisce per risultare senile e confuso come il suo protagonista, opaco e lacunoso come i ricordi annebbiati della sua struggente confessione testamentaria, che è insieme di Fife e di Schrader.